L'Editoriale
Domenica 26 Marzo 2023
Leadership, lezione francese per l’Italia
Il commento. Qualche lezione francese per gli italiani, specie per i favorevoli al presidenzialismo di varia natura. A noi riesce incomprensibile che Parigi bruci (e continua a bruciare perché c’è chi punta sulla violenza di piazza) per una riforma che semplicemente allunga l’età pensionabile da 62 a 64 anni a partire peraltro dal 2030, ritenuta necessaria perché le attuali regole sono insostenibili con le tendenze demografiche ed economiche del Paese.
Lo diciamo noi, che abbiamo avuto la legge Fornero (una «rasoiata» affermavano i sindacati), più severa e ambiziosa di quella d’Oltralpe, e che comunque le riforme più significative in materia le abbiamo fatte fare a governi tecnici (Dini e Monti) e non politici, scaricando così sugli esterni l’onere della impopolarità. Mettere mano alle pensioni ha un alto contenuto esistenziale ed emotivo per le persone e qualsiasi decisione normativa crea tensioni se i costi ricadono su gruppi sociali chiaramente identificati e i benefici non si sa bene a chi andranno.
Ma cercare di capire perché un modesto contributo allo sviluppo collettivo sia percepito come un diritto violato aiuta a comprendere il malessere delle nostre società. Anche le formule presidenziali (America) e semipresidenziali (Francia), fino a qualche tempo fa esempi virtuosi in termini di capacità di decisione, paiono logorate e inadeguate a curare le ferite sociali: deprimono il pluralismo e affermano all’eccesso le ragioni dei vincitori. Assistiamo ad un capitolo della crisi della democrazia, che è crisi della rappresentanza. Come ha notato il sociologo Mauro Magatti su «Avvenire», le ragioni istituzionali non vengono più capite dalle persone comuni, specie fra quelle che faticano a vivere e il cui potere d’acquisto continua a scendere. L’esperienza francese lo conferma: prima la ribellione delle periferie a prevalenza islamica, poi i gilet gialli (la provincia profonda e popolare contro la metropoli), ora una nuova metamorfosi della rabbia che riunisce quasi tutto il Paese, riformista e radicale, e che in altre situazioni si dividerebbe.
Da noi - dice l’eminente giurista Sabino Cassese - la politica è diventata «affare di oligarchie». Il monarca repubblicano, nato con la Quinta Repubblica di De Gaulle, in questa circostanza ha declinato l’investitura popolare alla massima estensione, non cercando il dialogo con le parti sociali, emarginando il Parlamento e peraltro con un governo privo della maggioranza assoluta: glielo consente la Costituzione, ma in questo modo s’è interrotta la comunicazione fra Macron e il popolo, quella connessione di sentimenti che, in teoria, costituisce la natura dell’elezione diretta del presidente. Potere verticale e leaderismo, pur orientati dalle migliori intenzioni ma con un tono che ai più appare elitario, hanno sostituito la disponibilità all’ascolto e alla mediazione. L’efficacia della norma è necessaria, ma insufficiente se manca la ricerca del consenso: diventa tecnocrazia. Una vicenda che sintetizza i guai di società malate, Italia compresa, passando pure dalla caduta del modello Westminster dell’Inghilterra post Brexit, e forse con la sola relativa eccezione della Germania, benché orfana di Angela Merkel.
Da un lato quella che si chiama «disintermediazione» attraverso le riforme dall’alto che bypassano sindacati, organizzazioni d’interessi, insomma la società di mezzo, quei corpi intermedi che in Francia sono già deboli. Quanto all’Italia vedremo cosa succede fra sindacati, prossimi a una mobilitazione unitaria, e governo sulla contestata delega fiscale, comunicata ai rappresentanti dei lavoratori a cose già fatte. Dall’altro la «polarizzazione», cioè la prevalente distribuzione delle forze politiche sui due estremi.
La parabola di Macron ci riguarda, perché in qualche modo è vittima del proprio successo: l’uomo senza partito che nel 2017 aveva spazzato via quelli tradizionali (pur con uno zoccolo duro personale non travolgente, circa il 20%) s’è inceppato davanti a un sistema politico senza baricentro, un punto d’equilibrio. Al posto dei socialisti ci sono i populisti di sinistra, la destra repubblicana è ai minimi termini, Le Pen continua a macinare consensi, il centro liberaldemocratico del presidente è riassunto dalla sua leadership e non va oltre. In Italia alla destra di governo il Pd replica con il nuovo corso a sinistra. In Francia c’è chi ha parlato di un panorama di macerie, ma in ogni caso il costo politico è pesante: l’indebolimento di Macron, per il peso specifico del Paese e per la taglia europeista dell’interessato che ne fanno il principale avversario delle destre radicali, non è una buona notizia, anche perché rischia di avvantaggiare i populisti di ogni genere. In questo gioco di specchi - come ha scritto recentemente anche l’ex premier Monti, non certo in solitudine - l’Italia, nell’ipotesi di un presidente eletto direttamente dal popolo, sarebbe più conflittuale, sottoposta a un clima di perenne contrapposizione, e meno governabile. Proprio la sbandata francese spinge viceversa ad apprezzare figure di garanzia in cui tutti possono riconoscersi e il parlamentarismo che, per quanto oggi a forza decrescente, garantisce una democrazia consensuale.
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