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ITALIA. Non devono trarre in inganno l’alto grado di popolarità di cui gode la premier Meloni così come il consenso che i sondaggi attribuiscono al suo partito.
In politica contano i numeri ma, non meno, contano le idee. E i numeri dicono che il governo gode di buona salute, le idee invece soffrono. Sembrava che l’insediamento di Trump alla Casa Bianca fosse il coronamento della campagna condotta dalla presidente del consiglio per avvalorarsi come il principale punto di riferimento dell’Europa dei 27. C’erano tutte le premesse.
La sua difesa incondizionata dell’Ucraina aveva sgombrato il campo dalle riserve, nutrite nei suoi confronti dalle cancellerie occidentali, quale leader di un partito che si richiama alla tradizione – piuttosto imbarazzante – della destra neofascista. Parimenti, le aveva fatto conquistare fiducia nel consesso di tutta Europa, persino presso i cosiddetti Paesi frugali, sospettosi per definizione della propensione alla spesa facile dei Paesi mediterranei, la cura riservata dal suo governo a tenere sotto controllo i conti pubblici.
Altro elemento che aveva giocato a suo favore, in questi primi due anni di governo, è stato di esprimere l’unico esecutivo stabile in un’Europa rimasta orfana dei suoi tradizionali punti di riferimento, Germania in primis. Di colpo, queste condizioni favorevoli all’esercizio di un’incipiente, inedita leadership continentale dell’Italia sono state messe in forse, alcune addirittura invalidate. La Germania di Friedrich Merz sembra decisa a riprendere non solo il suo ruolo di locomotiva economica dell’Europa, ma anche ad acquisire il ruolo di gigante politico, da nano che è stato in questo dopoguerra.
La F rancia e l’Inghilterra, forti del loro rango di potenze nucleari, hanno assunto di fatto un ruolo di guida. Non parliamo poi della posizione difficile in cui la premier si è venuta a trovare con l’elezione di Trump. Il presidente amico doveva essere il pilastro di sostegno alla sua leadership in Europa. È diventato un riferimento imbarazzante al cospetto degli altri partner dell’Ue. Non riserva nessun ruolo ai suoi alleati storici nella gestione della politica estera. Non ha nessun riguardo nei loro confronti nelle trattative per la pace in Ucraina. Non si fa nessun problema ad applicare, per di più d’imperio, dazi doganali erga omnes.
Farà fatica Giorgia Meloni a convincere gli imprenditori del suo Lombardo-Veneto, le cui fortune economiche dipendono in gran parte dall’esportazione, che Trump è amico dell’Italia. Infine, ha avuto la spiacevole sorpresa di trovarsi - absit iniuria verbis - una serpe in seno nel segretario della Lega. Salvini ha sposato la causa di Trump, pensando che questo allineamento gli consenta di risollevare le fortune periclitanti del suo partito.
Non c’è da far conto che possa fare marcia indietro. Potrà tutt’al più diplomatizzare, come in genere fa in occasione delle verifiche di maggioranza, il suo smarcamento dalla linea politica della premier, non certo acconsentire ad un suo riallineamento.
La luna di miele della premier Meloni con il Paese è durata fin troppo. Era scontato che insorgessero problemi. E così è avvenuto. Ci sono sul tappeto questioni di non poco conto, come la sofferenza salariale di gran parte dei lavoratori dipendenti, l’emergenza casa, l’illegalità nelle periferie delle grandi città, le minacce alla sicurezza dell’Europa. «Scusate se è poco» - sbotterebbe Totò.
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