Le sorprese di Trump
Un guaio per Biden

È successo altre volte negli ultimi quattro anni. Ma anche in questa tormentata transizione verso la presidenza Biden, le decisioni di Donald Trump (o di chi lo guida, di chi lo consiglia nell’ombra, poco importa) potrebbero rivelarsi assai più «politiche» di quanto si tenda a credere. Non ci riferiamo alle proteste contro i presunti brogli o alle azioni legali intraprese per l’annullamento o il riconteggio di parte dei voti, che sono parse da subito inutili per invalidare l’elezione di Joe Biden e tese soprattutto a galvanizzare i 72 milioni di americani che hanno comunque votato per il presidente in carica. Pensiamo, invece, alle iniziative che Trump prende per complicare l’opera di governo del successore e favorire l’opposizione sua e del Partito repubblicano negli anni a venire.

Non bisogna infatti dimenticare che, a dispetto della valanga di voti raccolta da Biden (è il singolo candidato più votato nella storia delle presidenziali americane), a livello delle istituzioni la situazione è più complicata. La Camera, si sa, avrà una maggioranza democratica. Ma il Senato è ancora in bilico e saranno decisivi i due senatori che la Georgia sceglierà in gennaio. Se al Senato la maggioranza, anche risicata, dovesse andare al Partito repubblicano, tutto ciò che fa oggi Trump avrebbe tutt’altro senso. E Biden potrebbe cominciare a preoccuparsi.

Trump, per esempio, ha annunciato la riduzione dei contingenti americani in Afghanistan, Iraq e forse anche Somalia. Coerente, in questo, con annunci precedenti e con la dichiarata intenzione di «portare i ragazzi a casa». Ipotizziamo ora che Biden, tra sei mesi, si accorga che invece in quei Paesi servono più soldati. Avrebbe a quel punto il coraggio di prendersi un impegno così impopolare agli occhi dei cittadini americani?

Lo stesso vale per altri fronti, primo fra tutti il Medio Oriente. Mike Pompeo, segretario di Stato con Trump, è appena volato in Israele dove ha annunciato che il movimento per il boicottaggio economico di Israele sarà dichiarato antisemita e che i prodotti degli insediamenti israeliani saranno esportati negli Stati Uniti come «made in Israel». Tutto molto irrituale ma di nuovo: Biden avrà il coraggio di fare marcia indietro rispetto allo storico alleato israeliano? Riporterà l’ambasciata da Gerusalemme a Tel Aviv? Ritirerà il riconoscimento offerto da Trump a tutte le colonie israeliane, illegali per il diritto internazionale e per gran parte dei Paesi e delle istituzioni mondiali? Di certo non avrà dimenticato l’umiliazione inflitta a Barack Obama da Netanyahu, che andò a sbeffeggiarlo addirittura a Washington, al Congresso, applauditissimo dai repubblicani.

Ancora: Biden è stato, da vicepresidente di Obama, co-protagonista dell’accordo sul nucleare siglato con l’Iran nel 2015 e da Trump unilateralmente annullato nel 2018. Il nuovo presidente ha ripetuto, nella campagna elettorale, di voler tornare a quell’accordo ma con «nuove condizioni». D’accordo, ma quali? Biden non l’ha detto. E domani chi sarà a deciderle? La sua Casa Bianca o un Senato ostile, quindi capace di bloccare ogni sua iniziativa?

È probabile quindi che da qui al 20 gennaio, giorno dell’inaugurazione della presidenza Biden, Trump escogiti altre sorprese, soprattutto per quanto riguarda la politica estera dove ha mano più libera. Brucia i ponti, è chiaro, gioca sporco. Come certi stopper che i calcioni li danno senza fingere. Non sarà l’ultimo a farlo, certo non è il primo. Non fu il raffinato Obama a lasciare alla Casa Bianca il trappolone del Russiagate, che ha accompagnato Trump per quattro anni? Il vecchio Mao Tze Tung diceva che «la rivoluzione non è un pranzo di gala». Ma anche la politica Usa non scherza.

© RIPRODUZIONE RISERVATA