Le rivolte in Francia: quei mondi separati

ESTERI. Si può fare quel che fa, inevitabilmente, il presidente Macron: prendersela con i provocatori, potenziare lo spiegamento di forza pubblica, mandare i blindati in strada, additare i social come un luogo di promozione della violenza, chiedere la collaborazione delle famiglie, promettere giustizia per Nahel, il ragazzo di 17 anni ucciso dalla polizia a Nanterre.

Ma si può anche fare ciò che ora, dopo notti pazzesche di scontri e saccheggi che hanno investito Parigi come Strasburgo, Roubaix come Pau e Marsiglia, fanno molti francesi: chiedersi perché la Francia sia così spesso soggetta a ondate di protesta sociale che in un attimo diventano guerriglia urbana. Il conto è presto fatto: 2005, quattro settimane di rivolta delle banlieu; 2018, le proteste dei gilet gialli che, in un modo o nell’altro, dureranno fino al 2020; primavera 2023, la mezza insurrezione contro la riforma delle pensioni; e adesso l’ondata rabbiosa degli adolescenti, grandi protagonisti di queste notti folli.

Certo, si può tirare in ballo la storia e l’inclinazione tutta francese a usare la strada per esprimere il sentimento collettivo. Che non è sempre e solo di protesta, ovviamente. L’11 gennaio del 2015, dopo la strage islamista al giornale satirico Charlie Hebdo e al supermercato Hypercasher, quasi quattro milioni di francesi (un milione e mezzo nella sola Parigi) marciarono per mostrare al mondo il loro fiero dolore. Nel 1885, per i funerali di Victor Hugo, due milioni di francesi arrivarono con ogni mezzo nella capitale per onorare chi aveva saputo raccontare con tanta umanità anche le classi più povere. Insomma: la Francia, quando ha qualcosa da dire, lo dice in pubblico.

Nel nostro elenco di crisi fa storia a sé la rivolta delle banlieu, ma solo perché risale a qualche anno fa e fu gestita in modo esitante dal presidente Chirac (proclamò lo stato di emergenza solo dopo otto giorni di scontri) e con stile arrogante da Nicolas Sarkozy, allora ministro degli Interni. Per il resto, però, essa raccontava una storia quasi identica a quella delle altre rivolte: strati di popolazione che si sentono scivolare sempre più indietro e hanno la sensazione di essere considerati una zavorra, un peso del passato. Gli immigrati nordafricani delle periferie, sempre più lontane dal mondo luccicante dei centri città. I gilet gialli, ovvero una massa di piccoli artigiani e commercianti messi di colpo alle strette da una politica «verde» che ha innegabili ragioni ma il cui costo veniva scaricato su chi già lottava per stare a galla. L’aumento dell’età pensionabile. Adesso di nuovo i ragazzi delle periferie, nati in Francia, cresciuti ed educati in Francia, ma mai davvero integrati e impegnati a salire su un ascensore sociale più lento di un tempo e affollatissimo. E al conto, peraltro, mancano altri capitoli come il duro sciopero degli addetti del settore energetico, nell’autunno del 2022, che portò al blocco di sei raffinerie su sette e alla precettazione dei lavoratori.

Le date dimostrano che in questa moltiplicarsi di crisi, di cui le frange violente sono sempre pronte ad approfittare, c’è anche la mano del presidente Macron, eletto una prima volta nel 2016 e rieletto nel 2022. Le ultime crisi sono tutte sue, almeno dal punto di vista politico. In tempi difficili un leader può essere costretto a prendere decisioni difficili, ed è bene che lo faccia se sono necessarie. Ma c’è modo e modo, e in quello di Macron si sente troppo il tecnocrate, il grand commis che guarda più ai numeri e alle strategie che alle persone e ai destini. Un altro non si sarebbe fatto fotografare, la notte dopo l’uccisione del giovane Nahel (il poliziotto è accusato di omicidio), a un concerto di Elton John, lui sorridente e la moglie Brigitte scatenata nel ballo.

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