Le richieste a Draghi
e l’appello all’unità

Nel giorno in cui Sergio Mattarella, ricordando il rapimento di Aldo Moro, chiede a tutte le forze politiche una unità di intenti paragonabile a quella che salvò l’Italia dall’offensiva terroristica, i partiti continuano a fare i conti tra loro e a cercare di influire sul cammino del governo Draghi. La novità in campo è quella di Enrico Letta mentre l’altra variante, la leadership di Giuseppe Conte sul M5S, tarda a manifestarsi. Letta, appena insediato, ha cominciato con l’affermare che il suo compito non è quello di «rendere docile il Pd rispetto al governo Draghi»: lo dice perché non pochi hanno scritto che lui - forte di una rete di relazioni che, a cominciare da quella con Draghi, si estende in Europa e con i cosiddetti «poteri forti» - è tornato in Italia dopo sette anni di insegnamento a Parigi proprio per mettere alla stanga i democratici zingarettiani un po’ troppo renitenti a sostenere il governo tecnico-politico messo in piedi da Mattarella giustappunto in nome dell’«unità».

Lasciando perdere le dietrologie che vorrebbero spiegare come un tutt’uno le improvvise dimissioni da Zingaretti da segretario del Pd e il ritorno di Letta, è già un fatto l’allineamento – certo diverso dalla «docilità» - tra quest’ultimo e l’attuale inquilino di palazzo Chigi. A questa intesa manca un lato, ed è proprio quello di Conte: «Ci darà delle sorprese il M5S guidato da lui» dice il neosegretario del Pd. Si sta dunque costituendo un asse che mira a due risultati: primo, l’azzeramento dell’influenza di Matteo Renzi (curiosità: oggi sono in sella a Pd e M5S proprio i due che Renzi ha disarcionato dalla presidenza del Consiglio); secondo, il ridimensionamento mediatico di Matteo Salvini che si muove davanti ai microfoni e alle telecamere come se fosse lui il lord protettore dell’Esecutivo, insomma quello che lo tiene in piedi. Letta naturalmente pensa, come Zingaretti, Franceschini e tutti gli altri, a una alleanza col Movimento 5 Stelle ma da una posizione di guida, e certo non guarda a Conte come al «federatore dei progressisti italiani» quale lo descriveva Zingaretti quando insisteva per mantenerlo a tutti i costi al governo.

No, Letta vuole che il Pd si riprenda il ruolo di capofila del centrosinistra (per questo è prevedibile presto un patto con Speranza e Bersani per farli tornare a casa) e, da una posizione di forza, trattare con Conte e cercare con lui di vincere le elezioni. Non sarà però facile sconfiggere il centrodestra: Letta dice di voler reintrodurre il «Mattarellum», la legge elettorale per tre quarti maggioritaria e un quarto proporzionale, ma tutte le simulazioni che sono state fatte con quel sistema danno comunque il trio Lega-FdI-FI vincente o addirittura dominante. Il segretario del Pd è convinto tuttavia che la diversa collocazione attuale – la Lega e FI al governo, FdI all’opposizione – finirà per dividere quella coalizione. Chissà. Nel frattempo tutti cercano di ottenere da Mario Draghi qualcosa da sbandierare dal prossimo decreto «Sostegni» che infatti tarda a vedere la luce: forse arriverà in Consiglio dei Ministri nella seduta di dopodomani.

Salvini ha già in pugno la rottamazione delle cartelle esattoriali, il M5S la conferma del reddito di cittadinanza reso flessibile in caso di impieghi lavorativi temporanei, mentre il Pd ancora non può rivendicare nulla. Del resto, Letta ha avuto appena il tempo di fare qualche tweet e una conferenza stampa con i giornalisti stranieri. Ai quali ha detto che per lui l’ex ministro del Tesoro Roberto Gualtieri va benissimo come candidato sindaco di Roma. Dove, tanto per cominciare, l’alleanza con i grillini non ci sarà e il «campo progressista» si presenterà diviso: Gualtieri per il Pd, Virginia Raggi che si intestardisce a non mollare, e Carlo Calenda a nome di Carlo Calenda. Giorgia Meloni già canta vittoria: «Nessuno dei tre ci fa paura».

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