Le parole della politica
fra degrado e minacce

Il degrado, nel linguaggio politico (anzi, dei politici), sembra inarrestabile. Non è un fenomeno nuovo. A calpestare la compostezza dei modi, e soprattutto dei modi di dire, in politica ci aveva pensato – già nei rovinosi anni ’80 – il mitico Rino Formica, definendo la politica «sangue e m….». All’epoca, l’affermazione del braccio destro di Craxi, era stata come un pugno nell’occhio, oggi sembrerebbe una carezza. Nel preoccupante imbarbarimento del dialogo pubblico l’aspetto peggiore non sono le parolacce e gli insulti (che non mancano affatto), quanto piuttosto la pesantezza dei contenuti nelle affermazioni sia di leader di partito, sia di loro oscuri sottopancia. Non si salva quasi nessuno, anche perché sembra ormai essersi affermata la convinzione che restare fuori dalla sarabanda delle enunciazioni (più o meno gratuite, più o meno plausibili) equivalga a non esistere. Il pericolo era stato avvertito già da Indro Montanelli, il quale, negli ultimi anni della sua vita, affermò con ruvida amarezza che nella società dell’informazione «chi tace non acconsente, muore». Il monito del grande giornalista si è trasformato, per un beffardo destino, nell’arma preferita di parte amplissima del ceto politico.

Se si guarda soltanto agli ultimi cinque anni, il declino somiglia a una valanga rispetto alla quale non sembrano esservi argini sufficienti. La recente campagna elettorale è stata la più rozza degli ultimi decenni. Ancora una volta, non tanto per la pesantezza dei toni (nel 1948 non si scherzava al riguardo), quanto per l’inconsistenza degli argomenti. I parlatori seriali, nelle interviste o nei talk show televisivi, sembravano tanti manichini caricati a molla, pronti a ripetere «a pappagallo» frasi vuote e offensive.

Si sperava che i toni aspri potessero smorzarsi ad urne aperte, quando si è trattato di formare il governo e, ancor più, allorché l’esecutivo ha iniziato a lavorare. Invece, da quel momento, la guerra delle parole si è fatta tambureggiante. In particolare da parte dei partiti che avevano vinto le elezioni. Non è passato giorno nel quale non siano volate minacce (più o meno velate) contro il capo dello Stato o che non si sia denunciata la minaccia dei «poteri forti» contro la «volontà del popolo». Un crescendo di dichiarazioni che, nei giorni dell’approvazione della manovra finanziaria, ha sfiorato il grottesco. A tutt’oggi, nella narrazione del governo, il forte rialzo dello spred non deriva dalle incertezze degli investitori sulla praticabilità delle decisioni del governo, ma è un complotto. L’apparente paradosso si spiega facilmente se si riflette sulla distanza che si è progressivamente creata tra le promesse elettorali e l’azione di governo. Sul tema della sicurezza Salvini ha usato la scure delle affermazioni xenofobe e repressive, alimentando paure e ingigantendo i pericoli del fenomeno dell’immigrazione. La scelta era, dal suo punto di vista, facile. Invece di risolvere il problema, bastava demonizzarlo, renderlo insopportabile all’opinione pubblica. Le conseguenze del corto circuito tra la grossolanità delle affermazioni e la loro praticabilità (si pensi al caso della nave Diciotti) sembrano non essere state messe in conto.

Non meno preoccupante è la deriva delle dichiarazioni dell’altro vice premier, Di Maio, già incappato in affermazioni a dir poco incaute. Sostenere che il deficit è una risorsa fa pensare alla réclame televisiva nella quale – all’acquirente di un’automobile – viene consigliato di prendere quella più costosa, tanto la rata mensile è uguale. Senza, però, menzionare il fatto che le rate saranno più numerose. A illudere non ci vuole molto, ma occorre ricordare che scherzare con il fuoco può bruciare anche i piromani. Ma, soprattutto, governare con gli slogan può portare il Paese verso il baratro.

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