Le non regole
del populismo

Il populismo nostrano è sempre alla ricerca di «un centro di gravità permanente». Ma sembra destinato a non trovarlo. Ciò non soltanto perché a giorni alterni nella maggioranza di governo si avvertono dissonanze o crepe, ma soprattutto perché le prese di posizione dei leader dei due partiti al governo mostrano la precarietà di un progetto politico privo di bussola. Di Maio appare rintanato in un cantuccio, come in un limbo; lo scoppiettante comunicatore che aveva annunciato la sconfitta della povertà è ridotto a deboli sussurri che sfiorano l’afasia.

Sull’altro versante di governo (quello del dichiarato estremismo di destra) si assiste a un rilancio senza soste dei consueti toni aggressivi. Salvini, nei panni ormai dichiarati di «amministratore unico» della Lega, deborda quotidianamente sui social con dichiarazioni sempre più roboanti, perennemente alla ricerca di un nuovo bersaglio. Nei giorni scorsi se ne è avuta l’ennesima conferma nel caso della Sea-Watch.

Vicenda drammatica, per le persone raccolte in mare e in attesa di poter sbarcare in un porto sicuro; vicenda ostica per il grintoso ministro dell’Interno, il quale alla fine ha dovuto subire una cocente sconfitta. Non tanto perché i 42 immigrati sono sbarcati a Lampedusa, ma per il fatto che per loro è già prevista l’accoglienza da parte di alcuni Paesi europei. Tanto rumore per nulla si potrebbe dire; ma occorre ricordare che al leader della Lega serve proprio il «rumore». Quale che sia, ogni giorno, più volte al giorno, per tenere sempre caldo il livello dello scontro. Con chicchessia: l’Europa, i naufraghi, il comandante Rackete, il ladruncolo sorpreso a rubare.

Non c’è tregua nella «narrazione salviniana». Non è prevista alcuna sosta. Ma questa modalità di autoalimentazione diventa sempre più rischiosa soprattutto per il suo autore, il quale si trova imprigionato nel cliché dell’uomo «che non deve chiedere mai», ma deve soltanto imporre o minacciare. Sempre più spesso Salvini abbaia alla luna, morde con ferocia ma non azzanna la preda. Dopo l’esito della vicenda della Sea-Watch, egli ha dato il peggio di sé (che per lui è, ovviamente, il meglio), lasciandosi andare a sconsiderate e offensive affermazioni contro il capitano della nave, che lo aveva battuto sul suo stesso terreno: quello della decisione senza ritorno, assumendosene, peraltro, la responsabilità sul piano penale. Non pago di quello sfogo utile unicamente a rinfocolare gli animi già esagitati dei suoi seguaci e a riproporre lo stantio schema del «qui non passa nessuno», Salvini ha cambiato bersaglio, attaccando il Gip che – con argomentazioni giuridiche – non ha convalidato l’ordinanza del pubblico ministero.

Le rabbiose parole del ministro contro il magistrato sono, a veder bene, un’arma a doppio taglio, poiché evidenziano sia l’incapacità di accettare le più elementari regole della democrazia, sia la sua vocazione a ridurre le istituzioni a vassalli del «vincitore». Soltanto chi ha l’investitura del «popolo» ha facoltà di fare e disfare. L’idea stessa della indipendenza della magistratura gli produce l’orticaria. In un quadro di rapporti già assai fosco le dimissioni del procuratore generale della Cassazione, Curzio, sono l’ultimo tassello di un triste mosaico, del quale si vede, anche se confusamente, uno scellerato e indebito incrocio tra politica e magistratura. In realtà, Salvini non concepisce ostacoli al volere della maggioranza. Siffatta strategia - ammesso che così si possa definirla - è un pericoloso azzardo. Attaccare a testa bassa i magistrati, sostenendo che dovrebbero candidarsi alle elezioni non è soltanto segno di una totale ignoranza del principio di separazione dei poteri, che è a fondamento delle democrazie, ma è segno inequivoco di un progetto devastante: sottoporre la magistratura al controllo del potere politico. Qui l’analfabetismo istituzionale si sposa con l’avventurismo politico. Nessuna sorpresa. Si tratta dei due ingredienti tipici di ogni populismo, sotto qualsiasi latitudine.

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