Le nomine in Europa, un rebus per Meloni

EUROPA. Nelle prossime ore, alla vigilia del voto su di lei al Parlamento europeo, Ursula von der Leyen incontrerà il gruppo dei Conservatori e Riformisti europei, la formazione di cui Giorgia Meloni è leader.

La presidente uscente della Commissione, candidata a succedere a se stessa, deve valutare chi tra i Conservatori voterà a suo favore: per il momento si sono espressi per il sì i belgi e i cechi; contro i polacchi e i romeni, mentre Meloni in Consiglio europeo si è astenuta lasciandosi aperte tutte le strade sulla base appunto della trattativa in corso. Il presidente di Ecr, l’italiano Procaccini, dice che al momento non ci sono le condizioni per un sì e la stessa von der Leyen ha escluso che con Ecr ci possa essere una collaborazione «strutturale». E tuttavia quei voti le servono: sono 78, di cui 24 di Fratelli d’Italia. È vero che, sulla carta, Ursula avrebbe un margine di sicurezza abbastanza ampio, ma la tradizione dell’Europarlamento prevede parecchi franchi tiratori e pugnalate alle spalle, tanto più che ora la presidente ha trovato un’intesa anche con i Verdi che, se da un lato la copre «a sinistra», nello stesso tempo suscita irritazione e ostilità in parecchi deputati del suo stesso partito, il Ppe, che accolgono a malincuore una riproposizione dell’accordo di centrosinistra che ha fin qui retto la Commissione: preferirebbero uno spostamento verso destra che ricalchi il senso del voto europeo di giugno.

Ecco perché molti, a cominciare da Forza Italia e dai tedeschi della Cdu, vorrebbero un accordo con l’Ecr piuttosto che con i Verdi. Ma uno spostamento a destra creerebbe fratture con l’altro partner della coalizione «Ursula», i socialisti, che chiudono le porte a qualunque collaborazione con i Conservatori (ecco perché von der Leyen è costretta a chiedere i voti all’Ecr definendoli però «non strutturali»)

Insomma, si capisce che la cosa è parecchio complicata. Per tutti, e per Giorgia Meloni in particolare. In primo luogo perché dal suo atteggiamento deriva il tipo di trattamento che l’Italia riceverà al momento della distribuzione degli incarichi di commissario: è chiaro che se lei voterà a favore della ricandidatura di von der Leyen, potremo aspirare ad una poltrona importante (persa la possibilità di una vicepresidenza esecutiva, ora puntiamo alla Concorrenza, ma è difficile; più accessibili il Mercato interno o gli Affari economici per il ministro Fitto). Ma nello stesso tempo per la premier la questione è imbarazzante perché in questo passaggio al Parlamento europeo l’Italia potrebbe presentarsi con due o addirittura tre posizioni diverse: Antonio Tajani, ministro degli Esteri e membro autorevole del Ppe, voterà decisamente a favore della sua compagna di partito. Altrettanto decisamente Matteo Salvini, vice premier, voterà no al mandato bis di una presidente di cui ha contestato pressocché tutte le politiche.

Quanto a Meloni, come abbiamo detto, tutto è possibile e dipende dai colloqui riservati di queste ore, anche se è difficile che il capo del governo di uno dei Paesi fondatori voti no e si metta contro il nuovo governo di Bruxelles inaugurando una stagione di freddezza che è foriera di scontri (che non ci possiamo granché permettere: vedi alla voce «debito pubblico»). Forse è proprio una nuova astensione la strada più percorribile (al netto del fatto che, per la prassi dell’Europarlamento, astenersi significa votare contro). In ogni caso un ventaglio di posizioni politiche diverse che di sicuro non rafforza in Europa né la nostra immagine né la nostra capacità negoziale: pesano moltissimo, oltre ai legami internazionali, anche le questioni di politica interna e la continua disfida salviniana alla leadership di Giorgia Meloni che condiziona la nostra politica estera. Aspettando che arrivino le prossime decisioni in materia di aiuto all’Ucraina.

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