Le morti sul lavoro
Emergenza del Paese

Lunedì 1 ottobre sono 37 anni. Di solito non si dovrebbe scrivere in prima persona, ma permettete un’eccezione perché ci sono cose che con il passare del tempo non passano mai, anzi se possibile peggiorano pure. Mio padre è una delle migliaia di vittime sul lavoro, è morto cadendo da un’impalcatura in un cantiere il 1° ottobre del 1984: è vissuto lavorando ed è morto così. Si chiamava Bruno, aveva 51 anni e ora che ci penso era più giovane di me. Da tempo ormai i morti sul lavoro superano quota 1.200 l’anno, un numero semplicemente spaventoso.

Così a spanne da quel lunedì mattina di ottobre del 1984 in Italia sono morte sul lavoro oltre 40 mila persone, in più ci sono quelli che hanno perso la vita mentre stavano andandoci a lavorare, ed è un altro capitolo dolente. In un attimo cambia tutto, la vita di famiglie intere che perdono un punto di riferimento, il futuro che improvvisamente diventa più incerto e dopo un po’ arriva la rabbia, tanta. Perché può sembrare una frase fatta, ma non si può morire mentre si lavora per sfamare la famiglia e dare un futuro ai propri figli, non si può diventare solo numeri per le statistiche girando intorno al problema senza mai affrontarlo davvero.

Martedì sono morte 6 persone in una sola giornata, 2 lavoravano per una ditta bergamasca, ieri altre 4 tra Roma e la Puglia. Piccoli frammenti di una grande tragedia che ha mille cause e per ora nessuna vera soluzione. Fatalità, poca (o eccesso di) sicurezza, la formazione spesso inadeguata, la necessità di correre sempre più velocemente perché con il passare degli anni il mercato del lavoro si è fatto più fragile e precario. E chi va piano non resta indietro, ma proprio fuori.

Ma ci sono anche tutele che troppo spesso vengono meno, condizioni di lavoro inaccettabili che talvolta sfociano in comportamenti semplicemente criminali con la rinuncia preventiva alle minime condizioni di sicurezza da parte di qualche datore di lavoro irresponsabile in nome della produttività a tutti i costi. Fermo restando che sono eccezioni, per la stragrande maggioranza di loro la morte di un dipendente è qualcosa che mette a dura prova la stessa ragione di fare impresa, legami umani prima ancora che di lavoro.

Morire così è semplicemente inaccettabile e non c’è spiegazione o rassicurazione che tenga davanti a questa strage pressoché quotidiana. Non consolano nemmeno le statistiche dell’Inail che a settembre davano un calo del 10% delle vittime a fronte però di un aumento di oltre 8 punti percentuali degli incidenti: non consolano perché stiamo comunque parlando di 677 morti nei primi 7 mesi dell’anno, saranno statisticamente in calo ma restano comunque troppi.

Dietro ognuno di loro ci sono mogli, mariti, figli, genitori che vedono la propria vita cambiare in un istante con una telefonata e queste cose - credeteci - non passano mai. Anche perché appena esci dalla bolla del dolore devi fare i conti con il fatto che gli incidenti sul lavoro si ripetono sempre, ogni giorno in qualche parte del Paese e ti fanno ricordare che qualcun altro sta rivivendo il tuo stesso strazio di molti anni fa, quello dei tuoi cari, i volti di chi cerca di trovare le parole giuste per dirtelo ma sa che non ci sono. Non passa perché purtroppo continua altrove, questa è la verità.

Bene ha fatto Mario Draghi a chiedere «pene più severe e immediate» da un lato e dall’altro una maggiore «collaborazione all’interno delle aziende per individuare precocemente i punti deboli» e provare ad arginare questa strage. Perché in un Paese che ogni giorno parla di ripartenza le cose non cambieranno mai fino a quando non si prenderà coscienza che se c’è un’emergenza vera è quella di chi muore lavorando. Ogni giorno, e ancora.

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