Le minacce dell’Isis
Il ruolo dell’Italia

Le organizzazioni che seguono la propaganda jihadista censiscono ogni giorno minacce e annunci di prossimi attacchi e distruzioni. Site, l’osservatorio forse più attento al mondo, riporta in queste ore che gli islamisti vogliono dare la caccia agli agenti Cia e Mossad in Iraq, vendicarsi dei russi che bombardano Idlib, colpire il Governo del Camerun, distruggere la rete elettrica in Iraq, seminare il terrore in Congo. Alcune di queste cose purtroppo succedono, molte per fortuna no. Il che non cambia la realtà dei fatti: da molti mesi l’Isis e le altre formazioni terroristiche mostrano evidenti segni di ripresa in Siria e Iraq e da anni allargano il proprio raggio d’azione in Africa.
Tutto questo per mettere nella giusta prospettiva le minacce che all’Italia, e personalmente al ministro degli Esteri Di Maio, sono state rivolte da Al-Daba, il sito di propaganda dell’Isis. In altre parole: un gesto di violenza è sempre possibile (circolano sulla Rete, in particolare sui canali Telegram russi, voci di attentati in Italia, Francia e Spagna) ma non dobbiamo immaginare che da qualche parte, in un calcinato deserto mediorientale, si svolgano riunioni per organizzare l’invasione dell’Italia (la «presa di Roma» di cui l’Isis farnetica da un decennio) o il rapimento di Di Maio. Ma non per questo dobbiamo essere meno preoccupati. Perché la cosa che davvero conta è il senso politico di certe affermazioni, e questo è realmente minaccioso.

L’Isis e le altre formazioni del terrorismo armato, come la madre di tutte loro, la vecchia Al Qaeda, sono in buona sostanza dei gruppi mercenari. O, se vogliamo dirlo in termini più edulcorati e contemporanei, gruppi di militanti del terrore che operano in franchising. Loro mettono la sede e il personale ma l’idea, il marchio e la direzione sono forniti da altri. Sui militanti e sulle loro basi siamo intervenuti con grande forza, al punto di organizzare guerre in Afghanistan e in Iraq e di combatterne una terza in Siria. Ma su quegli «altri» che dettano la linea? Che mettono i soldi? Che indicano i bersagli? Molto poco. Le centrali del pensiero che guida l’integralismo armato sono sempre quelle, le petromonarchie del Golfo Persico, che continuano a essere alleati indispensabili o Paesi comunque molto difficili da «maneggiare».

Il fatto che la propaganda dell’Isis metta alla berlina l’Italia e il suo ministro indica che le ultime mosse del nostro Governo sono andate in una direzione molto sgradita a chi dirige il franchising del terrore. Importante, come scrivemmo già allora su queste pagine, la conferenza internazionale per la lotta all’Isis che raccolse a Roma, alla vigilia del G20 di Matera, gli esponenti di 83 Paesi, co-presieduta appunto dal ministro Di Maio e dal segretario di Stato Usa Anthony Blinken. Fu proprio Di Maio, nelle conclusioni finali, a porre l’accento sul ruolo strategico dell’Africa, in primo luogo della fascia del Sahel, e a spingere per un maggiore interesse verso quell’area.

È chiaro che ciò corrisponde a un bisogno strategico del nostro Paese. Nascono in Niger, Mali, Ciad e nei Paesi vicini alcune delle grandi questioni (a partire dai flussi migratori incontrollati, da cui i jihadisti traggono ingenti profitti) che poi si riversano nel Mediterraneo. Ma è altrettanto chiaro che in quei Paesi, oggi, si gioca la battaglia strategica contro il jihadismo e, più ancora, contro la sua azione destabilizzatrice. Le minacce dell’Isis devono essere prese sul serio, ovvio. Ci dicono però anche un’altra cosa: per la prima volta da anni, forse, stiamo facendo una cosa che conta.

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