Le elezioni francesi parlano anche a noi

MONDO. Parla anche a noi il risultato delle elezioni i Francia, con la sconfitta dell’estrema destra, dopo quello in Inghilterra che ha premiato i laburisti in formato riformista.

Una buona notizia per l’Europa che raffredda gli entusiasmi di ieri di un Salvini sempre fuori fase e che potrebbe favorire la rielezione di Ursula von der Leyen alla guida della Commissione di Bruxelles. E costringere Giorgia Meloni a dire di che pasta è fatta, uscendo dal lamento nazionale della «grande esclusa» dai giochi per le nomine dei vertici Ue e dall’ambiguità dei due tavoli, quello di essere insieme premier e leader degli euroconservatori: sta con i distruttori o con gli europeisti? Qui, però, bisogna fermarsi, perché il doppio turno - specie in un quadro molto ideologico e polarizzato come quello francese - va letto per quello che è: una semplificazione ai fini della governabilità, che si basa sulla disponibilità ad allearsi da parte di forze distinte e distanti fra loro. Vince chi ha capacità di coalizione, di aggregare i meno lontani dalle proprie posizioni uscendo dal recinto di casa, e infatti al centrodestra italiano non piace.

Questa capacità, la destra di Marine Le Pen non l’ha e non può averla, perché contro di lei funziona il «cordone sanitario», a parte una piccola quota di gollisti. La simmetria con il Nuovo Fronte popolare di sinistra in quanto populista (a guida Mélenchon, tribuno e demagogo come pochi) non regge dal punto di vista dell’utilizzo della tecnica elettorale: questa sinistra plurale ha capitalizzato al massimo il sistema delle alleanze, favorendo nelle desistenze i candidati moderati e persino dell’arcinemico Macron, riuscendo così vincitore. Le regole sono queste. Poi, essendo un cartello elettorale, può essere destinato a sfasciarsi e infatti Mélenchon, titolare di un programma economico irricevibile, è già partito con il piede sbagliato chiedendo a Macron di farsi da parte. La domanda è: cosa è cambiato fra il successo della destra alle Europee e al primo turno e il flop di domenica? Quanto spetta alla paura di ballare sul Titanic e ad un risveglio dal «sonno della ragione» e quanto ai vincoli del sistema elettorale? Il voto in Francia non è stato ordinario, essendosi svolto in tempi eccezionali. In ballo c’era la questione democratica. Fra una destra che contesta le istituzioni francesi ed europee, e che pur incipriata non ha smaltito del tutto l’eredità tossica originaria, e il resto che continua ad avere una certa idea repubblicana del Paese.

Tuttavia vuol dire anche, per effetto del doppio turno, che ogni deputato è stato eletto con voti non suoi ma degli altri. L’Assemblea nazionale è fatta da una tripartizione imperfetta (sinistra, centro, destra) di tipo proporzionale eletta su base maggioritaria. Un inedito. Come dice l’ex ministra liberale Sylvie Goulard, gli elettori hanno chiesto alla classe politica di fare ciò che non ha mai fatto: governare in un gioco di squadra per il bene del Paese. Dopo le parole di fuoco è il tempo della coabitazione, delle alleanze larghe e razionali. Il compromesso come necessità. Nessuno ha ottenuto la maggioranza assoluta e, del resto, la democrazia non contempla il concetto di vittoria assoluta, ma quello del limite delle maggioranze e della capacità di vivere insieme. È possibile nel contesto della Quinta Repubblica e con un Macron stretto fra due blocchi di rottura, destra e sinistra, comunque forti? A proposito: l’azzardo del presidente è sorprendentemente riuscito e la fine anticipata del macronismo s’è rivelata una notizia largamente esagerata. Macron esce rafforzato nei numeri, non necessariamente nel sentimento dei suoi connazionali. Dopo aver smontato destra e sinistra e pur avendo indubbie capacità, non ha lasciato dietro di sé che un comitato elettorale e un Paese lacerato che non ha saputo ascoltare se non dall’alto. Enrico Letta coglie il punto di frizione anti retorico quando afferma che l’Europa non può fingere che nulla sia successo. Non si può voltare pagina senza tenerne conto.

Il verdetto delle Europee e del primo turno non può essere archiviato come un incidente della storia: è piuttosto l’ennesimo segnale di ansie e malesseri profondi non raccolti dalle forze istituzionali. Il populismo ha subito una battuta d’arresto, tuttavia resta come tratto permanente del paesaggio politico, incanalando dalla parte sbagliata rancori sparsi e paura diffusa del futuro di chi teme di perdere ciò che ha ottenuto fin qui. Uno sfogatoio di chi ritiene che i valori del Paese non corrispondano al proprio vissuto quotidiano, di un declassamento di status che sarebbe degno di migliore rappresentanza. Lo schiaffo alla destra e il lato positivo di queste elezioni - distinguendo fra elettori e architetti del caos - vanno investiti in una democrazia non più a bassa intensità, bensì in un’offerta politica capace di interpretare le condizioni di vita di chi si sente tagliato fuori, recuperando alla cittadinanza quel senso di estraneità dei ceti popolari alla «società dei migliori».

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