Le due vie del governo
Il tracciato è fissato

Riuscire a stare in piedi non significa che si riesca a camminare. Così è per Conte. Tutto dipende da quel che riuscirà a combinare nei prossimi tre/quattro giorni: il tempo concessogli – si dice – da Mattarella e, comunque, il tempo ragionevole a sua disposizione per non far incancrenire la situazione. L’esito dell’operazione, volta a consolidare la maggioranza raccogliticcia di oggi in un’organizzazione strutturata, è incerto, ma il tracciato è fissato. Preclusasi la strada di una riconciliazione con Renzi, se non vuole salire sulle montagne russe deve appunto allargare, e consolidare la maggioranza. Ma come?

Le vie aperte si riducono sostanzialmente a due: o replicare la «maggioranza Ursula», che ha insediato la nuova Commissione europea (comprensiva quindi anche di Forza Italia), o dar vita a una nuova formazione, che offra dignità di partito ai «volonterosi» e alle varie anime perse alla «Ciampolillo» in un (possibile) transito dal gruppo misto (Udc, Fi e, ancor meglio, da Iv). La prima via è assai ardua, è soprattutto difficile da percorrere in tempi brevi. La seconda equivale, lo si ammetta o meno, a precostituire «il partito di Conte». E qui sorgono le prime preoccupazioni per i soci forti della coalizione rosso-gialla, ossia per il Pd e il M5S.

Anche a non prender troppo sul serio i sondaggi che accreditano la nuova formazione tra il 15 e il 17%, una cosa è certa: essa cannibalizzerebbe proprio i partiti di Zingaretti e di Grillo. Oltre ai numeri, si modificherebbero, a danno di quest’ultimi, anche i rapporti di forza e i ruoli politici. Si consoliderebbe, infatti, la posizione dominante nello schieramento di centro-sinistra già oggi occupata da Conte.

Chiamato originariamente a Palazzo Chigi come semplice notaio certificatore delle decisioni prese da altri (Di Maio e Salvini), valorizzato in un secondo momento da Di Maio e da Zingaretti come anello di raccordo insostituibile tra ex nemici, a questo punto Conte si accaparrerebbe definitivamente la poltrona di regista della coalizione, riducendo gli alleati a comprimari, condannati ad assecondarlo perché senza alternative.

I Cinquestelle a inizio legislatura erano letteralmente padroni del campo. Forti del 33% conquistato alle elezioni, si erano assicurati il controllo della plancia di comando. Potevano decidere a loro piacimento con chi formare il governo, se con la destra o con la sinistra. I Cinquestelle provano ora sulla propria pelle quanto sia castrante avere le mani legate e dover trangugiare uno dietro l’altro tutta una serie di bocconi amari: un giorno l’europeismo fieramente avversato, un altro l’accoglienza a braccia aperte dei compagni di partito cacciati per indegnità (ossia per il mancato rimborso al Movimento), un altro ancora il via libera dato al reclutamento di quanti un tempo erano bollati come voltagabbana, domani (forse) la riabilitazione di Berlusconi. Infine, l’accettazione supina della - ormai stabile - leadership dell’ex avvocato del popolo, candidatosi a riesumare una versione (presumibilmente parodica) della Dc, ossia del caposaldo dell’odiata Casta.

Da parte sua, il Pd, sbarrando la porta a Italia viva, si sarà pure levato la soddisfazione di mandare fuori gioco l’infido Renzi, ma si è condannato anche a rinunciare, non diciamo alla sua originaria «vocazione maggioritaria», ma persino ad avanzare una sua candidatura alla leadership del centrosinistra. Tra i tanti ostacoli che Conte sta incontrando nella sua opera di consolidamento della maggioranza forse quello che sta diventando più ostico è proprio la resipiscenza dei due maggiori partiti della coalizione a consegnarsi nelle sue mani.

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