L'Editoriale
Sabato 01 Giugno 2019
Le derive di Facebook
Cambiare è possibile
Mark Zuckerberg è uno degli uomini più ricchi del mondo. Come noto, deve la sua fortuna al fatto di avere inventato Facebook, madre di tutti i social network, che nel 2018 ha fatturato 22,6 miliardi di dollari. In realtà, neanche lui si aspettava questi risultati, essendo partito solo con l’idea di fare una sorta di album con i volti (da qui il nome: libro delle facce) degli studenti di Harvard. Si trattava di riprodurre in digitale ciò che il college da tempo editava sul cartaceo all’inizio di ogni anno accademico.
L’iniziativa fu poi estesa alle scuole superiori e alle università e oggi, dopo 15 anni, Facebook è il social più diffuso con oltre 2 miliardi di utenti. In questi anni, però, le buone intenzioni che avevano portato alla creazione del social sono state sepolte sotto una quantità crescente di ricatti, veleni e condizionamenti. Insomma, Facebook da essere un innocente album di volti giovanili è diventato il potenziale concentrato di cinismi mediatici e voyeurismi di ogni tipo, favorendo la diffusione di «fake news» e di immagini spesso volgari e ricattatorie, in particolare quelle a contenuto sessuale.
Il fenomeno ha portato a conseguenze talmente gravi da indurre lo stesso Facebook a correre ai ripari realizzando, attraverso un sistema d’intelligenza artificiale, una nuova tecnologia di rilevamento che identifica le immagini al fine di valutarne un’eventuale rimozione. Di recente lo stesso Zuckerberg si è mostrato preoccupato dei sempre crescenti abusi perpetuati attraverso il suo social, tanto da inviare al «Washington Post» una lettera in cui invoca dai governi dei vari Paesi «nuove regole per proteggere il web dai contenuti pericolosi». Molti Paesi si sono comunque già mossi in tale direzione, da ultimo l’Italia ha affrontato il problema della «revenge porn» (porno-vendetta), una pratica meschina che si serve dell’infinitezza e della viralità della Rete per concretizzarsi in modo efficace e immediato. Come nel caso di Tiziana Cantone, la giovane donna che nel 2016 si è tolta la vita dopo che contenuti a sfondo sessuale che la riguardavano hanno fatto il giro del web, rendendola protagonista involontaria di una delle più brutte pagine di cronaca degli ultimi anni. Dopo alcuni mesi di discussioni, il 2 aprile scorso si è giunti all’approvazione alla Camera, con 461 voti favorevoli e nessuno contrario, di un emendamento al codice rosso contro la violenza sulle donne che introduce nel codice penale il reato di «revenge porn». Con l’art. 612 si prevede che «chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone interessate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 5.000 a 15.000 euro. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone interessate al fine di recare loro nocumento».
Il reato s’inasprisce se è commesso dal coniuge, anche dopo il divorzio, o da persona legata affettivamente alla vittima. È prevista un’aggravante se la vittima è in condizioni di inferiorità fisica e psichica. Va salutata con grande favore l’introduzione di questo strumento giurisdizionale di civiltà e di buon senso che regola un’aberrazione sociale così grave. Ma il problema sarà ben lungi dall’essere avviato a soluzione se alla dimensione impositiva e sanzionatoria non si affiancherà quella educativa e formativa. Ciò vale per le giovani generazioni affette da un pericoloso processo di «adultizzazione», che comprende anche una vita sessuale sempre più precoce. Vale ancor di più per gli adulti che non hanno ancora preso coscienza delle potenzialità distruttive di un online che tutto diffonde e tutto conserva.
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