Le comunità locali e il senso dello sport

ITALIA. Nei giorni in cui il mondo intero parla della Bergamo calcistica per le incredibili imprese dell’Atalanta in Europa, il nostro territorio ha perduto un’altra fetta importante della sua storia sportiva.

Il basket di più alto livello traslocherà a Brescia, facendo calare il sipario su una storia ultradecennale. Una storia che, rapportata alle dimensioni del territorio, non può che dirsi di successo. Se non in termini di «bacheca», di sicuro in termini di rappresentanza territoriale: i trevigliesi dalla loro società di basket si sentono - o purtroppo si sentivano - rappresentati in pieno. E fa sensazione che non solo i trevigliesi siano ovviamente contrari all’operazione che porterà la loro società a «fondersi» con Orzinuovi: fa sensazione che contrari siano anche i tifosi della società bresciana, che dell’operazione è più beneficiata, e non solo per motivi di puro campanilismo «antibergamasco». Si dichiarano ostinatamente contrari alla fusione con Treviglio proprio perché vedrebbero «tradita» la rappresentanza territoriale, la loro identificazione con una maglia che è quella sia in Serie A, che nell’ultima delle divisioni possibili della pallacanestro.

Troppo spesso manager sportivi e «patron» sottovalutano questo aspetto, e nell’unica ottica del raggiungimento dei risultati spogliano i territori di questa fetta non secondaria della loro storia. Lo abbiamo visto da anni, ormai, nel mondo del calcio dilettanti, dove territori anche piccoli sono stati privati delle loro lunghe storie sportive, creando fusioni prima con territori limitrofi, poi con altre realtà più lontane. Fino alle «fusioni delle fusioni», col risultato che, leggendo il nome di certe squadre di calcio, diventa persino impossibile riferirle a un paese o a una zona della provincia. Nascono dei «mostri» sportivi che magari vincono ma non hanno storia, hanno poco seguito, nessuna o quasi appartenenza territoriale.

La vicenda di Treviglio non è l’unica nel panorama sportivo bergamasco degli ultimi anni. Basti pensare al ridimensionamento vissuto dal Volley Bergamo, che però dopo aver messo da parte l’idea del trasloco a Montichiari - chi ha memoria lunga ricorderà - ha trovato sul territorio le energie per restare in vita e, magari, provare a rilanciarsi. Ma, restando al volley, è ancora fresca la «ferita» della chiusura dell’Olimpia maschile, che aveva raggiunto vette considerevoli. E tornando alla palla a spicchi, sono delle scorse settimane le polemiche dei giocatori della BB14 contro la loro stessa società per le contingenti difficoltà economiche.

Il tema è delicato e di sicuro molto variegato. C’è certamente la casistica di proprietari che carichi di aspettative entrano in un mondo che non conoscono e commettono l’errore di spazzar via dirigenti esperti per inaugurare con la scure il nuovo ciclo, pensando che sia tutto facile. E poi vanno a sbattere e si sentono in diritto, dando quasi sempre la colpa agli altri, di prendere cappello e portarsi via la società e la sua storia. C’è sicuramente un tema strutturale: in provincia, quando si sale di livello, è spesso complicato essere dotati di strutture «a norma». Non era il caso, per esempio, di Treviglio, che ha un palasport non vetusto e funzionale, e che comunque sta progettandone uno nuovo.

C’è, sicuramente, una grande «parcellizzazione» delle realtà sportive. Che non è per forza un male, anzi. Il «male» arriva, quasi sempre, dall’incomunicabilità tipica bergamasca tra realtà anche vicine. Che a forza di guardarsi in cagnesco, di non collaborare, di non condividere, quando vanno in difficoltà non trovano aiuto dai vicini, sempre ammesso che lo vogliano.

Eppure collaborare rende più forti. E fa sì che anche in periodi difficili non venga meno quell’attività di base e giovanile che cementa sport e comunità e trattiene i giovani in ambienti sani, anziché lasciarli alla deriva di altri interessi, non sempre commendevoli. I segnali di «crisi» dello sport bergamasco non vanno sottovalutati. Non solo perché si rischia di vincere meno fuori dai campi da calcio, ma anche, e soprattutto, perché si rischia di privare i nostri ragazzi di un’attività vitale per la loro crescita. Non vorremmo ritrovarci a parlare di sport solo nei convegni, dove né si corre, né si suda, dove non si vince qualcosa e non si perde niente. Tranne i sensi, a volte.

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