Le carceri come tombe
vergogna italiana

La sicurezza tutela solo una parte della popolazione o riguarda tutti, anche chi è privato della libertà? Se la risposta è affermativa alla seconda opzione, allora la politica dovrebbe prendersi a cuore una tragedia che si consuma nel chiuso delle carceri italiane, ponendosi interrogativi seri, all’opposto del cinico «buttiamoli dentro e gettiamo la chiave». La tragedia è in alcuni numeri: nel 2018 ogni settimana più di un detenuto si è tolto la vita, 67 in totale, come non accadeva da anni. Uno degli ultimi casi riguarda un uomo di 47 anni, arrestato nello scorso settembre per aver rubato merendine in un market di Catania. Era recidivo e veniva chiamato ironicamente «serial Kinder». Ma non c’è nulla di divertente.

I decessi dietro le sbarre per altre cause sono stati invece 74, tra i quali un 75enne che si è lasciato morire di fame e altre due persone che hanno perso la vita per asfissia da gas (andrebbero annoverati nella prima casistica). Dal Duemila ci sono stati 1.030 suicidi nei nostri italiani. Inoltre nel primo semestre 2018 si sono registrati 5.157 atti di autolesionismo. La percentuale di chi si toglie la vita è più alta nelle carceri (9,1 ogni mille detenuti) che fuori (6,5 ogni mille abitanti). Ogni suicidio è una storia a sé ma ha conseguenze traumatiche simili: sui familiari, ma anche sul carcere incapace di prevenirlo, sugli agenti che trovano il corpo e sui compagni di cella. Anche tra gli agenti non sono rari i gesti estremi: il 19 ottobre scorso si è tolta la vita un’assistente capo della Polizia penitenziaria di Monza.

Stiamo trattando un tema che non gode di attenzione, popolare e mediatica. Anzi. Ma un Paese che si fregia della sua civiltà non può assistere inerme, magari giustificando il disinteresse col fatto che le vittime sono persone che hanno compiuto reati e quindi appartengono a un’umanità minore. In discussione è il nostro sistema penale e carcerario, che negli ultimi anni è stato migliorato (anche in seguito alla sentenza della Corte europea dei diritti umani che nel 2013 condannava l’Italia proprio per le condizioni di detenzione) ma restano ancora grandi pecche. A cominciare dal sovraffollamento, oggi al 118,6%: i detenuti sono tornati a superare quota 60 mila a fronte di 50.583 posti regolari.

Le probabilità di gesti estremi sono più alte proprio nelle carceri sovraffollate e con condizioni igienico-sanitarie trascurate, dove non è rispettata la regola dei tre metri quadrati a disposizione per ogni persona, dove la chiusura delle celle è totale ad esclusione delle ore d’aria, dove mancano attività formative e lavorative e dove c’è una cronica carenza di personale (ormai generalizzata). Non a caso in un istituto modello come Bollate il numero di chi si toglie la vita è molto basso.

La detenzione andrebbe riservata alle situazioni che davvero lo meritano (il 40% di chi è in cella è in attesa di giudizio), investendo sulle pene alternative. Andrebbe poi favorito un aumento del tempo che i detenuti possono trascorrere coi propri cari, riducendo inoltre il ricorso all’isolamento (condizione nella quale è più diffuso il ricorso la suicidio). In Gran Bretagna ad esempio stanno sperimentando i telefoni nelle celle per poter comunicare con i familiari.

Il nostro governo, per voce del vice premier Luigi Di Maio, punta sulla realizzazione di nuove carceri, senza indicare dove trovare le coperture: la realizzazione di un istituto di 300 posti costa in media 25-30 milioni, con tempi di costruzione di 7-10 anni. Dovremmo invece essere più coraggiosi: investire sul lavoro nei penitenziari, sulle relazioni e sulle pene alternative. Dove ciò viene fatto, la recidiva (il ritorno a commettere reati) scende dal 70% per chi ha scontato tutta la pena in cella al 20% (con percentuali spesso anche più basse) per chi invece ha lavorato o goduto di pene alternative. Numeri da imparare a memoria. Conviene ai detenuti ma anche alla società.

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