Le carceri al collasso e le soluzioni inascoltate

ITALIA. «Il carcere non può essere il luogo in cui si perde ogni speranza» ha detto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, riecheggiando la Costituzione, che all’articolo 27 stabilisce che la pena deve avere una funzione rieducativa.

Eppure i numeri presentati il 6 dicembre alla Commissione regionale in visita alla Casa circondariale don Fausto Resmini di via Gleno, numeri che riflettono la realtà del sistema carcerario italiano, non fanno intravedere, purtroppo, segnali di speranza. Tutt’altro. Indicano un collasso: in via Gleno ci sono 583 detenuti, con un tasso di sovraffollamento del 182,8%. Mai così negli ultimi 15 anni. In Italia i detenuti crescono al numero di 200/300 unità al mese. Al 1° dicembre erano 62.463 detenuti, 16.000 oltre la capienza regolamentare. Una tendenza, questa, che si riscontra con questi ritmi almeno dal 2022. C’è un altro dato, forse il più preoccupante, che riguarda i giovani: sono 46 i detenuti tra i 18 e i 24 anni reclusi in via Gleno e la loro presenza è in aumento. Il fenomeno è dovuto anche agli effetti del cosiddetto decreto Caivano, che dà maggiori discrezionalità agli istituti per minori di trasferire i giovani detenuti nelle carceri per adulti, una volta che abbiano compiuto i 18 anni (i minorenni possono scontare la pena negli istituti minorili fino ai 25 anni di età).

Il personale sotto organico

Questa enorme pressione sul sistema carcerario ha un prezzo altissimo. Non solo perché con questi numeri e con il personale gravemente sotto organico (a Bergamo sono 170 effettivi su un organico teorico di 243), è impossibile anche solo sperare di erogare una pena sufficientemente rieducativa a ogni detenuto. Ma anche perché, con questi tassi di sovraffollamento, l’obiettivo cambia: diventa la sopravvivenza. Da inizio anno i suicidi negli istituti penitenziari sono stati 85, superando in questa tragica classifica, in 11 mesi, l’annus horribilis che era stato il 2022. Sette gli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita. Ma tutti gli indicatori della soglia di allarme (ormai ampiamente superata )sono in crescita: gli atti di autolesionismo (+ 506 ), così come i ricoveri urgenti in ospedale (+685), così come le infrazioni disciplinari per inosservanza degli obblighi (+ 1.447) e le aggressioni fisiche contro il personale di polizia penitenziaria (+375). Infine, sono 198 i poliziotti penitenziari indagati per lesioni gravi e torture e decine le inchieste giudiziarie in corso.

La possibilità di un atto di clemenza

È utile e rincuora che ci sia ancora chi, tra coloro che sono poi chiamati a decidere sugli investimenti destinati all’esecuzione penale, si prenda la briga di andare a vedere con i propri occhi, come hanno fatto i consiglieri regionali. L’impressione, purtroppo, è che la buona volontà ormai non basti più ad arginare un sistema che è regolarmente alimentato da un impianto normativo e da una condotta giurisprudenziale che ha radicalmente cambiato il suo approccio nei confronti della pena.Non è tutta responsabilità di questo governo, che pure ci ha messo del suo nell’invenzione di fattispecie punite con il carcere. Siamo invece di fronte a un generale cambio di paradigma che si è progressivamente imposto grossomodo alla svolta del millennio. Basti pensare, solo per fare un esempio, che gli ergastoli sono aumentati di 25 volte nel ventennio 2000-2019 rispetto al ventennio 1955-1974 (lo ha ricordato Alessandro Barbano su «Il dubbio»). La migliore sintesi l’ha offerta però, su Repubblica, Luigi Manconi, una delle poche voci a sostenere con gran forza la necessità di un atto di clemenza: prima di pensare a qualsiasi tipo di intervento sulle nostre carceri, va ridotto drasticamente e velocemente il sovraffollamento. E a chi avanza dubbi va ricordato che nel 2006, quando ci fu l’ultimo indulto, dei 27mila detenuti liberati anticipatamente, «solo il 35% era rientrato in carcere cinque anni dopo, a fronte di un dato complessivo che vede intorno al 67% la percentuale di recidiva registrata tra quanti scontano interamente la propria pena in carcere».

Fuori da ogni logica polarizzatrice tra «buonisti» e «cattivisti», si invoca il coraggio della razionalità, capace di analizzare con lungimiranza il rapporto tra costi e benefici. La forza di scegliere tra un carcere sempre più a rischio di diventare «scuola di crimine» e «incubatore di insicurezza sociale» (così Domenico Arena, direttore generale dell’Esecuzione penale esterna e Messa alla prova, su Avvenire) e un’istituzione di livello europeo, capace di incarnare quella «speranza»

Fuori da ogni logica polarizzatrice tra «buonisti» e «cattivisti», si invoca il coraggio della razionalità, capace di analizzare con lungimiranza il rapporto tra costi e benefici. La forza di scegliere tra un carcere sempre più a rischio di diventare «scuola di crimine» e «incubatore di insicurezza sociale» (così Domenico Arena, direttore generale dell’Esecuzione penale esterna e Messa alla prova, su Avvenire) e un’istituzione di livello europeo, capace di incarnare quella «speranza» che, come ricorda Mattarella, deve essere alla base di ogni sistema della pena, almeno in uno Stato che vuole ancora considerarsi di diritto.

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