L'Editoriale / Bergamo Città
Lunedì 12 Ottobre 2020
L’attendista Zingaretti
ha raccolto i frutti
S’invoca il politico decisionista e ha successo l’indecisionista. Conte ha creato la sua fortuna, prima svolgendo umilmente il ruolo di portaborse dei due comandanti in capo, Salvini e Di Maio, poi giocando in proprio al rinvio e all’insabbiamento di ogni decisione che temesse divisiva. La melina da lui condotta sul Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, ne è l’esempio illuminante. Con la fame di soldi che il Paese ha, ci si aspetterebbe che il capo del governo prendesse al volo un prestito di 36 miliardi libero da interessi. L’ex avvocato del popolo, invece, per il bene della coalizione posticipa continuamente una decisione al riguardo. Caso simile d’indecisionista di successo è Nicola Zingaretti. È talmente indecisionista che ha addirittura subito la decisione di stringere «un accordo di governo» con il M5S, da lui inviso. Ha offerto poi un’immagine di sé sbiadita, evitando ogni scelta netta sia all’interno del partito sia sul governo.
Una tattica attendista che si è comunque rivelata proficua. Al momento della verifica del voto, ne ha raccolto puntualmente i frutti. È riuscito a scongiurare il tracollo alle regionali e al secondo turno delle comunali ha fatto il pieno. Il centrosinistra da 16 sindaci è passato a 25. Ha persino a espugnato Lecco, una delle roccaforti leghiste.
Un leader senza «il quid» (ossia senza carisma, per usare un’espressione colorita di Berlusconi) fa il paio con un partito senza nerbo. Il Pd è tuttora orfano del progetto perduto di «partito a vocazione maggioritaria». Abbandonato il maggioritario, su cui pure aveva scommesso tutto se stesso al momento della sua nascita, ha abbracciato il proporzionale. Non ha spiegato però come possa conquistare Palazzo Chigi con quel misero 20% che si ritrova e, per di più, mancando tuttora anche di uno straccio di coalizione, grillini a parte.
A dire il vero, un punto di forza il partito di Zingaretti ce l’ha. È la sua immagine di forza responsabile. Si è caricato sulle spalle il peso di un governo nato «per caso», senza programmi e senza prospettive: unico obiettivo scongiurare «i pieni poteri» del capo leghista. Prima, ha accettato di stringere un’alleanza col M5S, fino al giorno prima considerato incompatibile con il proprio programma di riforme e ancor più con la difesa della democrazia rappresentativa, contestata dai Cinquestelle. Lo ha fatto anche a costo di pagare il conto salato di due scissioni: Italia viva di Renzi e Azione di Calenda. Poi, per non mettere a repentaglio la tenuta della maggioranza, ha seguito una linea di grande prudenza. Con vero spirito di abnegazione ha evitato strappi e una possibile rottura, disposto per questo ad accettare sia il rinvio delle misure invocate (a partire dal Mes per finire con la riforma elettorale) sia della revoca delle riforme deplorate (i decreti sicurezza, per tutte).
Una linea di prudenza spinta al limite dell’indecisionismo che comunque ha pagato, come s’è visto nelle due recenti sfide elettorali. Nello scontro vis-à-vis con la destra, il Pd, pur partendo da una scoraggiante 20%, è riuscito nel maggior numero dei casi ad avere la meglio. Evidentemente gode di un’egemonia senza consenso. Ma alla distanza, può reggere un’egemonia senza consenso?
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