L'Editoriale
Mercoledì 14 Luglio 2021
L’«ascensore»
da riattivare
La pandemia, lo dimostra una mole crescente di dati forniti dalle nostre stesse istituzioni, rischia di funzionare come un «acceleratore» di molteplici tensioni che da tempo – e a prescindere dalla diffusione del Sars-Cov-2 – caratterizzano il nostro sistema pubblico di welfare. Si prenda il tema delle pensioni. L’Inps, nel suo Rapporto annuale, nota che il diverso livello di reddito tra cittadini «si associa ad un divario nella speranza di vita a 65 anni, che risulta abbastanza stabile negli anni di rilevazione del fenomeno (2014-2020) e varia da 3,4 anni per gli uomini a 2,2 anni per le donne». In un’altra ricerca, curata stavolta da ricercatori esterni all’istituto di previdenza ma nell’ambito del progetto «Visit-Inps Scholars», si compie un calcolo simile, andando un po’ indietro nel tempo. «Gli uomini nati tra il 1930 e il 1939 appartenenti al quintile di reddito più ricco vantano un vantaggio medio in termini di speranza di vita a 50 anni rispetto agli appartenenti al quintile più povero di circa 3 anni. Per gli uomini della coorte 1950-1957, tale vantaggio si allarga a circa 4,5 anni».
In altre parole, il 20% più ricco degli italiani vive più a lungo del 20% più povero, e tale divario sembra essere aumentato negli ultimi decenni. Da tutto ciò, si legge di nuovo nel Rapporto annuale dell’Inps, si può dedurre che «il metodo di calcolo contributivo (introdotto dalla riforma Dini), che attribuisce lo stesso coefficiente di trasformazione indipendentemente dalla posizione reddituale, sia attuarialmente iniquo e regressivo, in quanto redistribuisce risorse dai più poveri ai più ricchi». Infatti a causa di politiche previdenziali che ignorano le variazioni nella speranza di vita tra cittadini di reddito diverso – si pensi all’età pensionabile calcolata sulla base della speranza di vita media o ai coefficienti di trasformazione del montante contributivo «ciechi» rispetto al reddito – rischiamo di arrivare al paradosso, sintetizzato sul Corriere della Sera, per cui «i più poveri (che vivono meno) finanziano i più ricchi (che vivono di più)». Una tale stortura ovviamente non è del tutto ignorata dal legislatore: proprio per questo motivo, infatti, la legge riconosce alcuni «mestieri usuranti» con annesse vie preferenziali al pensionamento. Inoltre è difficile ipotizzare una rivisitazione in base al reddito dei coefficienti di trasformazione, considerata pure l’esperienza di altri Paesi europei.
Più in generale, comunque, le elaborazioni della Direzione Centro studi e ricerche dell’Inps ci ricordano che le disuguaglianze intra-generazionali, anche in tema di previdenza, sono insidiose e si sommano a quelle inter-generazionali. Fare di tutto per riattivare l’«ascensore sociale» del Paese, evocato di recente dal presidente del Consiglio Draghi a proposito del ruolo dello sport, permetterebbe di aggredire e ridurre entrambi i tipi di disparità. Come argomenta con interviste e dovizia di dati Alberto Magnani nel suo libro «Le due Italie» (Castelvecchi), l’ascensore sociale italiano è quasi del tutto bloccato. Un recente studio della Fondazione Rodolfo Debenedetti evidenzia che appena il 10% dei figli nati da genitori nella sezione più bassa di distribuzione del reddito (sotto i 15mila euro) può ambire a raggiungere, da adulti, il segmento più elevato, quello cioè dei genitori con un reddito superiore ai 50 mila euro. Viceversa, almeno il 35% dei figli nati da genitori nella fascia più elevata di reddito potrà mantenere la sua posizione. Ancora: «L’edizione del 2020 del Global social mobility index del World Economic Forum, un report che valuta i Paesi in base ai cinque indicatori di accesso a salute, istruzione, tecnologia, lavoro e protezione sociale, classifica l’Italia al 34° posto su 82 Stati analizzati». Germania e Francia sono rispettivamente all’11° e al 12° posto.
Inoltre, in un contesto di simil-lockdown per colpa della pandemia, con il crollo della socialità e delle occasioni di networking, tra i giovani si intensifica il ricorso a rapporti familiari e personali per trovare occasioni di studio e lavoro, così aumentando oltremodo il peso del contesto d’origine sulle possibilità di crescita formativa e professionale. Ecco l’inizio di un altro circolo vizioso che i giovani di oggi si trascineranno fino alla pensione, e che va fermato al più presto.
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