L'Editoriale
Mercoledì 04 Ottobre 2023
Lampedusa, 10 anni le stesse tragedie
ITALIA. Era la notte del 3 ottobre di dieci anni fa, quando a poche miglia dalla costa dell’isola dei Conigli, a Lampedusa, un’imbarcazione con 500 immigrati prese fuoco e si capovolse, inabissandosi con a bordo bambini, donne e uomini: le vittime furono 368.
In seguito al naufragio, il governo Letta decise di rafforzare il pattugliamento del canale di Sicilia autorizzando l’operazione «Mare nostrum», una missione militare ed umanitaria la cui finalità era di prestare soccorso alle persone per prevenire altre stragi nel Mediterraneo. Ieri sull’isola porta d’Europa sono stati ricordati i 10 anni dal naufragio: stridente l’assenza di rappresentanti del governo. Anche la politica migratoria più dura non può prescindere dall’umanità verso chi rischia la vita in mare e spesso la perde. Dopo la cessazione di «Mare nostrum», dal 2013 sono morte nel Mediterraneo almeno 28mila persone, 1.143 erano minori. Almeno perché non è raro che le imbarcazioni si inabissino senza lasciare tracce, se non le denunce di scomparsa da parte di chi non trova più i parenti partiti per l’Europa.
Ieri alle celebrazioni per il decennale erano presenti i sopravvissuti e i familiari delle vittime della strage, che vivono in Paesi dell’Ue e che ogni anno tornano nell’isola da cittadini europei, con un passaporto del nostro continente: chi è diventato tedesco, norvegese, svedese o olandese. Nella narrazione politica e mediatica è in uso il termine «invasione» a proposito degli sbarchi sulle nostre coste: e invece, secondo i dati di Eurostat (Ufficio statistico dell’Ue), su un milione di persone approdate negli ultimi dieci anni sulle spiagge italiane, almeno 650mila sono riuscite ad andare in altri Paesi europei, una su tre in Germania. Altrimenti non si comprenderebbe come mai l’Italia, prima per arrivi dal mare, è solo sesta fra gli Stati dell’Unione per richieste d’asilo. Tra i dublinanti, coloro che secondo le regole del Trattato di Dublino avrebbero dovuto essere riaccompagnati indietro, 650mila vivono in altri Paesi ma l’Italia in dieci anni ne ha riammessi 35mila, uno su dieci. In generale il 70% dei migranti che arriva nel nostro Stato raggiunge poi altre nazioni, dove ha parenti, conoscenti o dove ci sono migliori condizioni di integrazione. Certo l’Europa potrebbe fare di più ma, come ha ricordato Andrea Torre, direttore del Centro studi migrazioni nel Mediterraneo, «si deve fare chiarezza e ricordare che gli Stati membri hanno voluto e deciso che le politiche sull’immigrazione fossero di competenza nazionale».
Le risposte efficaci per arginare le migrazioni sono note: creazione di canali legali (per lavoro o umanitari per proteggere chi scappa da guerre e persecuzioni), sostegno allo sviluppo dei Paesi d’origine e di transito degli immigrati, lotta ai trafficanti che hanno rapporti collusivi anche con Stati che finanziamo per fermare le partenze, regole economiche eque che contrastino lo sfruttamento delle risorse del Sud del mondo.
Sono interventi che danno risposte nel medio-lungo periodo. Nel frattempo bisognerebbe dare priorità al salvare vite, un obbligo morale per l’Europa orgogliosa della sua civiltà. Prendendo esempio proprio da Lampedusa, isola di 6mila abitanti che è arrivata ad ospitare nelle scorse settimane fino a 7mila migranti e che ha a disposizione un «hotspot» (centro di identificazione) di 680 posti totalmente inadeguato allo scopo. I lampedusani hanno aperto le loro case per sfamare immigrati lasciati senza assistenza dopo viaggi logoranti, il poliambulatorio locale ha curato le ferite di migliaia di persone sbarcate, i pescatori hanno salvato vite in ossequio alla legge del mare: per questo alcune organizzazioni della società civili attraverso una petizione hanno candidato l’isola al premio Nobel per la pace.
Peraltro Lampedusa chiede interventi per migliorare le proprie infrastrutture e i collegamenti con la Sicilia ma senza ricevere le risposte attese. Una fazzoletto di terra generoso, porta d’ingresso in Europa per migliaia di disperati, meriterebbe almeno corposi sostegni. Simboleggia anche il sistema di accoglienza smantellato in questo ultimo anno, salvo poi chiedere aiuto ai territori per le cicliche crisi umanitarie. Non è per questa via che si governa l’immigrazione.
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