L’amico migliore dell’America peggiore

ITALIA. La non-notizia della riconferma di Salvini a segretario della Lega chiude un congresso scontato (qui e quasi altrove), che non ha aggiunto nulla di creativo. E cioè il vicepremier e leader del secondo partito di governo (stando agli ultimi sondaggi) intende essere il miglior amico della peggior America.

Quella di Trump, che sta colpendo l’Europa a suon di dazi e che pratica un nazionalismo autoritario per smantellare lo Stato di diritto. Quella di Musk, ormai l’oracolo dell’Internazionale sovranista e che, al congresso della Lega, ha usato parole da brivido. Un partito salvinizzato ormai dal 2013, non scalabile e tenuto a briglie strette dal vertice in stile «verticale del potere», visto che le prossime assise saranno nel 2029. Di alternative, neppure l’ombra, e pure questo si sapeva.

Un segretario rieletto per acclamazione, di fatto una celebrazione con l’omaggio dei nomi più ingombranti dell’europopulismo. Nei giorni della tempesta perfetta, era forse lecito attendersi qualche tratto innovativo, originale: in fondo c’è modo e modo di stare con Trump. E invece nessun pensiero autonomo, nessuna elaborazione particolare per capire come star dentro i nuovi equilibri pur nella prossimità ideologica di una strategia che si propone di sovvertire l’ordine liberale esistente e la separazione dei poteri.

Un’occasione mancata

Occasione mancata, anche in riferimento ai dolori che tormenteranno il popolo dei piccoli e medi produttori, l’area di riferimento elettorale. Salvini in cerca di un nuovo ruolo e di spazi di consenso ha scelto semplicemente di fare il megafono del tandem della nuova America, di ripetere in modo pedissequo il verbo dell’oligarchia al potere. Inseguendo una pretesa utilità di voti e la compiacenza degli amici di Washington, rischia di ritrovarsi isolato nelle sedi che contano. C’è nel Paese un pericoloso obiettivo convergente dei populismi di destra e di sinistra, quello di approdare a una linea antieuropea e che, nella migliore delle ipotesi, significa abbandonare l’Ucraina ai capricci di Trump e Putin: meglio, alle loro ipotetiche sfere d’influenza.

Salvini in cerca di un nuovo ruolo e di spazi di consenso ha scelto semplicemente di fare il megafono del tandem della nuova America, di ripetere in modo pedissequo il verbo dell’oligarchia al potere

Il bacino maggioritario dei neutralisti, confermato dai sondaggi, indifferente a chi sia l’aggressore e l’aggredito perché timoroso dei problemi indotti dalla sicurezza, promette fortune nell’urna agli architetti del caos. Si nota un progetto per delegittimare l’Ue, per indebolirla dall’interno, spingendo la Commissione di Ursula von der Leyen verso la sponda bellicista e scaricando lo choc dei dazi su Bruxelles. L’idea di negoziati bilaterali con l’America ne è un riflesso e ci si può chiedere se l’idea di Giorgia Meloni di rivedere le norme sulla transizione verde, annunciata ieri, non sia un modo per rimuovere la responsabilità principale: quella di Trump. In realtà la stessa premier è disarmata. Ciò che non è riuscito alle opposizioni è stato ottenuto dalla guerra commerciale degli Usa: con un piede in due scarpe, Bruxelles e Washington, Meloni si trova in seria difficoltà. Finora, a dispetto dell’evidenza, ha optato per il minimalismo e la sdrammatizzazione che segnalano quantomeno imbarazzo per chi ha investito sul «prima gli italiani».

I punti aperti

Salvini non abbandona la preda e, in attesa dell’arrivo di Vance a Roma, le manda a dire che la competizione è aperta, senza sconti. E resta in corso d’opera sui temi interni. Primo: la Lega ha rivendicato la priorità di arrivare al dunque sull’autonomia regionale differenziata, che tuttavia è confinata a latere. Nella testa di Meloni c’è la questione giustizia. Secondo: dopo il ribaltone elettorale a proprio vantaggio, la premier vuole governare le Regioni del Nord e qui è ancora in alto mare l’enigma dei mandati, il che vuol dire il destino di Zaia. Terzo: il cambio della guardia al Viminale con il ritorno di Salvini alla guida degli Interni, possibile materia di scambio.

Il leader leghista rimane una spina nel fianco del governo, ma intanto la pax salviniana ha normalizzato il partito che si regge su altre due gambe finché reggono: l’ala autonomista di Zaia e quella istituzionale di Giorgetti. Lo scarto si avrà se e quando il governatore del Veneto non potrà ripresentarsi, ma per ora il rappresentante lombardo-veneto più popolare resta acquartierato nel perimetro venetista. Più volte indicato come il competitore di Salvini, non s’è neppure avvicinato alla soglia della linea rossa, quasi a dire di sentirsi appagato nella sua marca territoriale. Anzi, recentemente ha mostrato più vicinanza del solito al suo segretario. Giorgetti è partecipe come da costituzione caratteriale.

Le due incognite

Restano due incognite. Una riguarda il capitalismo molecolare del territorio, la vera forza della Lega: quindi che reazione avrà sulla strategia punitiva di Trump e sulle prossime politiche del governo. L’altra rimanda alla sensibilità emotiva del mitico popolo leghista, di norma allineato e coperto verso la dirigenza, disciplinato e rispettoso. Malumori e dissapori, certo, ma solo quelli. Niente a che vedere con il lirismo ruspante, che ha composto la colonna sonora del bossismo. Una comunità che attende tempi migliori senza dirlo.

Più in generale si può ritenere che la pochezza del congresso della Lega è pari a quella di un sistema politico che, proprio perché sprovvisto di cultura politica, guarda in esclusiva al proprio ombelico elettorale, ritenendo che il marketing comunicativo supplisca ai concetti. Esattamente l’opposto di quel che ha saputo fare, 80 anni fa, l’Italia di De Gasperi e dei suoi alleati.

© RIPRODUZIONE RISERVATA