L’America alle urne, differenze e ricadute

MONDO. Le elezioni di domani (5 novembre), il giorno più lungo d’America, parlano come sempre al mondo, ma questa volta di più. E parlano soprattutto a noi.

Lo ha detto bene lo studioso di relazioni internazionali Charles Kupchan, già consigliere di Obama: «L’erosione del centrismo politico e della moderazione, l’accelerazione dello scontro che supplisce al confronto sono elementi comuni a gran parte dei Paesi occidentali, Italia compresa». Che vinca o meno Trump, il trumpismo resta come fattore permanente della scena statunitense e contagioso fuori dai confini. Una minaccia autoritaria, perché contesta le basi costituzionali della più vecchia democrazia liberale. Il candidato repubblicano, di un partito che ha perso la nobiltà di un tempo, nel 2016 ha ricevuto 63 milioni di voti popolari (su un elettorato attualmente di 162 milioni) e 74 milioni nel 2020. Un Paese fattosi introverso, spaccato nettamente in due parti che non si riconoscono sui fondamentali della convivenza civile, in cui il numero delle armi è superiore a quello dei cittadini e dove - secondo un recente sondaggio del «New York Times» - il 29% degli elettori riterrebbe ammissibile per un presidente violare la legge pur di realizzare il suo programma.

Un Paese fattosi introverso, spaccato nettamente in due parti che non si riconoscono sui fondamentali della convivenza civile, in cui il numero delle armi è superiore a quello dei cittadini

La fascinazione dell’uomo forte che attraversa le due sponde dell’Atlantico e che sta mettendo sotto stress le istituzioni un po’ ovunque, compresi i celebrati «pesi e contrappesi» del sistema americano. Fra disinformazione, bolle comunicative, dissociazione fra realtà e percezione della stessa, con la combinazione di più fattori: debolezza di leadership lungimiranti, impatto dal basso degli effetti negativi della globalizzazione sul ceto medio, mobilitazione dall’alto degli architetti del caos che erodono i valori democratici dall’interno. C’è un paradosso, però, in tutto questo: mentre gli Stati Uniti vivono un declino relativo di potenza (e ora anche etico), abilmente sfruttato dagli autocrati che vi leggono una decadenza dell’Occidente, tutto il mondo in questi mesi è rimasto come sospeso in attesa del 5 novembre. Per quanto indebolita e benché il Duemila non sia più il «secolo americano», la forza d’attrazione degli Usa resta centrale. La «nazione indispensabile», come si è definita e come lo è nei fatti, un Paese che, come nessun altro, suscita sentimenti di approvazione e di dissenso.

Fra disinformazione, bolle comunicative, dissociazione fra realtà e percezione della stessa, con la combinazione di più fattori: debolezza di leadership lungimiranti, impatto dal basso degli effetti negativi della globalizzazione sul ceto medio, mobilitazione dall’alto degli architetti del caos che erodono i valori democratici dall’interno

Trump, per gli europei, sarebbe la prospettiva peggiore: ha avuto parole sprezzanti nei nostri confronti e offensive, a suo tempo, contro Angela Merkel. Ci considera un club di profittatori che prosperano sulle spalle della Nato e dell’America, vede le relazioni con gli alleati come transazioni commerciali dominate dalla legge del più forte. Unilaterale e protezionista, più che isolazionista. Tuttavia Trump presidente ha accelerato e reso radicale un processo di arretramento in corso dagli anni di Obama, proseguito e attenuato nella forma da Biden con un approccio multilaterale e culturalmente rispettoso del Vecchio continente. Kamala Harris presenta alcune incognite, tanto più che, come sempre, la campagna elettorale è stata giocata esclusivamente sui temi interni.

La politica internazionale

La candidata democratica è in continuità con la tradizione atlantista e negoziale, ma non per questo sarà necessariamente generosa. Pesano il cambio generazionale, il retroterra di formazione personale e una certa stanchezza trasversale all’elettorato dei due partiti sull’attivismo geopolitico. Il personaggio rassicura rispetto al suo avversario, ma non dà l’immagine di solidità politica. Replicherà l’azione di Biden continuando gli aiuti militari all’Ucraina magari con una maggiore spinta negoziale, perché il messaggio è che la guerra prima o poi dovrà terminare nell’orizzonte di una pace giusta. Sarà un passaggio comunque più difficile, e qui bisogna vedere i nuovi rapporti di forza al Congresso.

Pesano il cambio generazionale, il retroterra di formazione personale e una certa stanchezza trasversale all’elettorato dei due partiti sull’attivismo geopolitico

Sul conflitto israelo-palestinese, ricalcherà sostanzialmente la posizione dell’attuale presidente. Sia il protezionismo, e quindi i dazi, sia la priorità della Cina e dell’Indo-Pacifico non cambieranno. Pechino continua ad essere il rivale sistemico. Anche nella prospettiva più favorevole, l’Europa sarà più sola in un momento in cui economia e sicurezza interagiscono in maniera diversa dal passato. Se l’aggressione russa all’Ucraina ha ricompattato per ora i ranghi, il conflitto economico con Pechino ha scardinato un pezzo della strategia dei 27. I massicci aiuti di Biden all’economia sono stati parte del formato «America first» e ritenuti un tentativo di sottrarre all’Ue investimenti e imprese per la transizione ambientale.

Una Nato europea

Se il problema è avere una Nato più europea, questione che ha approfondito le differenze di visione fra Germania e Francia, bisogna spostare risorse verso la Difesa e preparare l’opinione pubblica a un passaggio sensibile tutto da costruire, il cui esito non è scontato. Tra perdita di competitività, battute d’arresto dei pesi massimi, Rapporto Draghi dall’incerto destino, integrazione politica insufficiente. L’effetto del voto Usa, qualunque sia, piomba alle spalle di un’Europa che - se non cerca di riformarsi - rischia la sopravvivenza, come ha denunciato Macron, o la crisi esistenziale descritta da Draghi.

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