![La premier Giorgia Meloni a Riad con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman La premier Giorgia Meloni a Riad con il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman](https://storage.ecodibergamo.it/media/photologue/2025/2/7/photos/cache/laccordo-con-riad-ora-dialogo-sui-diritti_89aed10c-e522-11ef-a82a-33e52af2eaa9_1920_1080_v3_large_libera.webp)
(Foto di ansa)
MONDO. La ragion di Stato e gli affari devono prevalere sul rispetto dei diritti umani? Dove pende la bilancia quando si tratta di trovare un compromesso tra interessi economici e principi democratici?
La questione sorge a proposito dei recenti accordi fra Italia e Arabia, che hanno rafforzato la loro collaborazione attraverso una serie di contratti del valore complessivo di 10 miliardi di dollari. Queste intese, firmate durante la visita ufficiale della premier Giorgia Meloni nel Regno saudita, coprono settori strategici come difesa, energia, infrastrutture e tecnologia. Ci si chiede se era opportuno collaborare con un regime autocratico noto per la repressione delle libertà civili. Fra l’altro in passato, Meloni aveva criticato duramente l’Arabia, definendola una «nazione fondamentalista» e sottolineando la mancanza di diritti per le donne e la presenza della pena di morte per reati come l’apostasia e l’omosessualità.
Gli accordi si rifletteranno sulla crescita economica del nostro Paese (di cui c’è un gran bisogno, visto che il Pil è sostanzialmente bloccato). Fermo restando che l’Arabia Saudita rimane uno dei regimi più repressivi del mondo
In realtà la questione sottende un’eterna esigenza di realpolitik. La scelta di rafforzare la partnership con questa monarchia è stata giustificata dal governo come un passo necessario per garantire opportunità economiche alle imprese italiane, rafforzare la sicurezza energetica e consolidare la presenza italiana nel Medio Oriente. Sono stati firmati accordi strategici con aziende italiane come Leonardo, Snam e Fincantieri per partecipare alla transizione energetica saudita, con un focus sull’idrogeno verde e sulla sostenibilità. Ma c’è perfino una collaborazione del Parco archeologico di Pompei su come gestire gli spazi museali e archeologici. Gli accordi si rifletteranno sulla crescita economica del nostro Paese (di cui c’è un gran bisogno, visto che il Pil è sostanzialmente bloccato). Fermo restando che l’Arabia Saudita rimane uno dei regimi più repressivi del mondo. L’assassinio del giornalista Jamal Khashoggi, orrendamente trucidato e fatto a pezzi, avvenuto nel consolato saudita a Istanbul nel 2018, è stato attribuito direttamente alla cerchia ristretta del principe ereditario Mohammed bin Salman.
Oggi Riad è un partner consolidato di Washington in Medio Oriente. Ma anche Francia, Germania e Regno Unito hanno stretto negli ultimi anni accordi miliardari con il regno wahhabita, soprattutto nel settore della difesa. Per tutti gli scrupoli vengono dopo gli interessi
Il Paese sunnita mantiene un ruolo ambiguo anche nei dossier internazionali, a cominciare dalla guerra in Yemen. Nonostante ciò negli ultimi anni l’Arabia ha intrapreso una massiccia operazione di «soft power», cercando di riposizionarsi sulla scena internazionale come un attore moderno e innovativo. Come è noto anche Matteo Renzi svolse consulenze come speaker a diversi eventi gestiti da organi legati al governo di Riad, tra cui il Future investment initiative, noto come la «Davos del deserto», durante il quale arrivò a definire bin Salman artefice di un nuovo Rinascimento.
Il Paese sunnita mantiene un ruolo ambiguo anche nei dossier internazionali, a cominciare dalla guerra in Yemen. Nonostante ciò negli ultimi anni l’Arabia ha intrapreso una massiccia operazione di «soft power», cercando di riposizionarsi sulla scena internazionale come un attore moderno e innovativo
Ma può un Paese che pratica ancora esecuzioni pubbliche e reprime il dissenso politico diventare un partner affidabile per le democrazie occidentali? Va detto che se dovessimo utilizzare il metro del rispetto dei diritti civili per stringere affari internazionali, di Paesi con cui dialogare ne resterebbero ben pochi. Anche la Repubblica popolare cinese non è certo un modello di democrazia, eppure l’Italia ne coltiva i rapporti commerciali dai tempi di Marco Polo. E che dire dell’Iran, della Turchia, della Russia, dell’Egitto, dei Paesi del Sudest asiatico, di Cuba, di diversi Stati del Sud America, come il Venezuela o delle decine di Stati africani retti da feroci dittatori con cui intratteniamo affari? Del resto l’Italia non è certo l’unico Paese a fare businness con l’Arabia Saudita. Pensiamo agli Stati Uniti, che intraprende relazioni dal 1933, quando la compagnia petrolifera statunitense «Standard Oil of California» ottenne una concessione per l’esplorazione del petrolio saudita, segnando l’inizio di una partnership strategica basata sull’energia. Oggi Riad è un partner consolidato di Washington in Medio Oriente. Ma anche Francia, Germania e Regno Unito hanno stretto negli ultimi anni accordi miliardari con il regno wahhabita, soprattutto nel settore della difesa. Per tutti gli scrupoli vengono dopo gli interessi.
In fondo gli accordi con Riad sono la fotografia di un’Italia che si propone come ponte tra Europa e Golfo, in cerca di spazi di manovra in un Mediterraneo sempre più affollato, in una geopolitica segnata da tensioni crescenti e dalla necessità di diversificare alleanze e approvvigionamenti. Forse più che indignarsi sarebbe opportuno guardare al bicchiere mezzo pieno, che non è costituito solo dai vantaggi economici e sociali ma anche dal ruolo che può avere una simile partnership in un’evoluzione graduale dell’Arabia Saudita verso una maggiore apertura, magari unendo alla cooperazione commerciale anche un dialogo politico sulle libertà civili e i diritti fondamentali, compito, quest’ultimo della nostra politica estera.
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