L'Editoriale
Giovedì 11 Febbraio 2021
La vera crisi: basso
livello di istruzione
Il ritardo strategico dell’Italia rispetto agli altri Stati industrializzati si riassume
in una cifra: 13 milioni. Tanti sono gli adulti italiani con basso livello di istruzione. Secondo i dati Isce dell’Unesco costituiscono il 20% dei 66 milioni di parigrado in Europa. Una sproporzione che va a unirsi alla più bassa quota di adulti che partecipano ad attività di istruzione e di formazione. La media Ocse è al 52%, quella italiana al 24%. Vuol dire che mentre la tecnologia avanza ogni giorno e sottopone a quotidiane necessità di adattamento la maggior parte della popolazione attiva rimane esclusa dai processi innovativi. E questo spiega perché a fronte di una disoccupazione che raggiunge il 9% le imprese abbiano difficoltà a trovare manodopera in grado di operare nelle nuove linee di produzione.
Sono dati che si sono accumulati nel tempo e che esprimono il lento declino italiano. Sino al 2005 il livello di benessere era paragonabile a quello tedesco poi è iniziato il calo. Mentre in Germania il prodotto interno lordo cresce di circa un ottavo da noi scende sino a regredire nel 2019 alle percentuali del 2000 come reddito pro capite al netto dell’inflazione. Vent’anni senza crescita. Non ce ne siamo accorti perché ha supplito il debito pubblico cresciuto sino al 130% ed ora in piena pandemia salito sino a quasi 160%. Un fenomeno che colpisce tutti in Europa ma che in Italia diventa pericoloso per la diminuita influenza del settore industriale nella vita del Paese. Il 23,9% della componente manufatturiera sul prodotto interno lordo non è male se confrontato per esempio al 19,5% della Francia ma se si perde nei mille rivoli delle piccole imprese italiane distribuite sul territorio diventa di poco impatto.
Manca un pivot, i grandi gruppi privati si sono dissolti e sono rimasti solo i gruppi pubblici. Da noi manca una Siemens, un Airbus, una Bayer, che facciano da catalizzatore di innovazione. Se la grande industria deve innovare è costretta a seguirla anche il piccolo fornitore. In Germania il dibattito politico spazia su tutti i temi sensibili ma poi al dunque l’unica domanda che ci si pone suona così: è utile alla nostra economia? In Francia vale lo stesso criterio se pur formulato diversamente, qui conta l’orgoglio nazionale. A Parigi e Berlino si fa fatica sulle scienze del nuovo sapere ma i servizi hanno fatto progressi. Basti pensare alla logistica. In Italia questi ancoraggi non sono così saldi. E certamente non aiuta che un adulto su due in Italia sia bisognoso, secondo i dati Isce, di formazione e riqualificazione. Nel tempo ci siamo attardati a dare la colpa di tutti i nostri mali alle privatizzazioni, al liberismo, alla finanza predona, alla globalizzazione, all’ austerità convinti che non c’è un solo problema nazionale che non veda i colpevoli al di fuori dei confini.
Questo spiega l’euro-scetticismo, le simpatie per la Cina da una parte e per Trump dall’altra parte senza cercare mai di capire da dove venisse il disagio della nazione e soprattutto la sua mancata attrattività per gli investimenti sia nazionali che internazionali. Tutto questo ha fatto dell’Italia un laboratorio politico a cielo aperto con tematiche comuni al mondo industrializzato ma senza una classe dirigente in grado di definire la priorità degli interessi nazionali. Alla difficoltà di chiamare i problemi per nome e soprattutto a condividerli con i cittadini è chiamato ora a sopperire Mario Draghi. C’è voluto l’esempio di un’eccellenza del nostro Paese per ridare fiducia a chi privato della forza illuminante della scuola l’aveva persa.
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