
(Foto di Ansa)
MONDO. Ad osservare la Turchia con un minimo di prospettiva si ha l’impressione di vedere doppio, o meglio: di vedere un Paese sdoppiato. C’è la Turchia che opera fuori dai propri confini e lo fa con forza e dinamismo, sfruttando un’abile diplomazia e un’idea sempre chiara dei propri interessi strategici.
Quella che si è ritagliata un ruolo decisivo nella crisi tra Russia e Ucraina come nella Libia post Gheddafi, che ha costruito con pazienza un’industria nazionale degli armamenti che ora (pensiamo solo ai droni) comincia a ripagare gli investimenti, che sta dilatando la Marina per conquistare un ruolo ancora più importante non solo nei cosiddetti «mari di prossimità» (Mediterraneo, Egeo e Mar Nero) ma anche lungo le coste dell’Africa, continente in cui sta realizzando una penetrazione con pochi uguali, insediandosi in Somalia come sponsor della ricostruzione, mediando un accordo tra Etiopia e Somalia, costruendo ferrovie ad alta velocità in Tanzania e così via. Per non parlare del Medio Oriente, dove Recep Tayyep Erdogan è riuscito ad abbattere il regime di Bashar al-Assad e, forte degli avamposti nel Nord della Siria, sembra apprestarsi a una spartizione del Levante da concordare con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, sempre criticato ma mai davvero ostacolato. È una Turchia aggressiva e cinica, quella che abbiamo provato a descrivere. Ma anche aperta al mondo e moderna, anche se al modo spietato con cui lo sono oggi tutti i Paesi che nutrono una qualche ambizione di potenza.
E poi c’è la Turchia interna, quella che vive e si agita dentro i confini. Ed è tutt’affatto diversa, è quella che vediamo in questi giorni dopo l’arresto, in base ad accuse speciose, di Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul e rivale tale da preoccupare già ora Erdogan per le presidenziali del 2028. Un Paese bloccato intorno al Rais, al potere dal 2003 (ma prima già sindaco di Istanbul), da lunghi anni impegnato a sventare complotti veri e presunti e a modificare via referendum la Costituzione (2017) per trasformare la Turchia da Repubblica parlamentare a Repubblica presidenziale, con lui ovviamente presidente a vita. Non può sfuggire la somiglianza con la parabola russa di Vladimir Putin, che proprio ieri ha festeggiato i 25 anni di potere. Putin subì forti contestazioni di piazza nel 2011-2013, provvedendo poi a ridurre gli spazi del dissenso.
Erdogan è forse meno efficace e deve affrontare ciclicamente (nel 2013 le imponenti manifestazioni di Gezi Park, nel 2021 quelle degli studenti dell’Università Bogazici) un’onda di protesta, cui reagisce sempre allo stesso modo: migliaia di arresti, intimidazioni alla stampa, chiusura di Internet e dei social network, manganellate della polizia. Quanto di più vecchio si possa immaginare. Eppure tra le due Turchie c’è un nesso che si chiama economia. Per molto tempo, inseguendo le ambizioni internazionali, Erdogan ha promosso a ogni costo politiche economiche espansive che alla fine gli sono scoppiate in mano. A fronte di una crescita comunque sostenuta (intorno al 5% del Pil), nel 2024 l’inflazione è stata del 59,2% (sempre meglio del 72,3% del 2022) e 15mila aziende hanno dichiarato fallimento nei soli primi sette mesi dell’anno. La lira turca si è svalutata del 30% rispetto al dollaro e il deficit accumulato del bilancio statale sfiora ormai i 250 miliardi di dollari. È stata proprio la crisi economica a proiettare Imamoglu alla carica di sindaco di Istanbul, ottenuta per la seconda volta nel 2024, così come ha contribuito a insediare Mansur Yavas, altro oppositore di Erdogan, alla guida della capitale Ankara.
È chiaro che, arrivati a questo punto, Erdogan non ha scelta: può solo proseguire sulla strada intrapresa, sperando che nel frattempo la nuova squadra raccolta intorno alla Banca centrale e al ministero dell’Economia, che sta provando a implementare una maggiore austerità, ottenga qualche successo prima che il malcontento popolare cresca ancora. Nel frattempo, oltre all’arresto di oppositori e dissidenti (con Imamoglu sono state fermate altre 90 persone), dobbiamo aspettarci una Turchia ancora più attiva sul fronte internazionale: il modo in cui Erdogan può convincere altri Paesi a commerciare e, nel caso, concedere nuovi crediti e finanziamenti. «Abbiamo bisogno della Turchia», ha detto nei giorni scorsi Donald Trump. Appunto.
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