La Turchia è stanca: Erdogan ora in bilico

ESTERI. Anno 2019, Recep Tayyep Erdogan viene rieletto presidente della Turchia al primo turno con il 52,5% dei voti. Anno 2023, Erdogan non supera il 50% dei voti al primo turno ed è costretto ad andare al ballottaggio (che si terrà tra due settimane) con il rivale Kemal Kilicdaroglu.

Il leader del Partito popolare repubblicano, un politico laico e progressista (è stato anche vice presidente dell’Internazionale socialista) però, fino a qualche tempo fa, sembrava condannato a fare l’oppositore a vita. Questi pochi dati già ci dicono che con il voto di ieri (domenica 14 maggio ndr) Erdogan ha comunque incassato una prima sconfitta: ora deve battersi sul serio, fino all’ultimo voto, sapendo di rischiare la sconfitta totale.

È possibile che il rais, l’uomo che da venticinque anni domina la scena politica della Turchia, si stia chiedendo che cosa sia successo, come sia possibile che il potere possa sfuggirgli di mano proprio nel momento in cui la guerra in Ucraina e la sua spregiudicatezza manovriera hanno fatto della Turchia un crocevia fondamentale dei processi di riassestamento degli equilibri internazionali. Fatto che, tra l’altro, gli ha consentito di riappianare i rapporti con i vicini mediorientali, comprese quelle monarchie del Golfo Persico che hanno ripreso a pompare denaro nel sistema economico turco.

Eppure gli ultimi due anni sono stati pieni di avvisaglie per Erdogan. La prima, e forse la più importante, è arrivata proprio dall’economia. Perseguendo la crescita a tutti i costi (nel 2021 il Pil turco è balzato dell’11,4%, record degli ultimi sessant’anni), anche trascurando la dipendenza energetica dalle importazioni (più del 95% del gas e il 93% del petrolio), e non accettando in merito la minima contestazione (cinque governatori della Banca centrale si sono succeduti in otto anni), il presidente ha scatenato un’inflazione rovinosa per il tenore di vita del cittadino medio. A fine 2022 l’incremento dei prezzi ha superato l’80%, per raffreddarsi lievemente solo grazie alla diminuzione del prezzo del gas e del petrolio russo.

Un altro elemento che deve aver contato molto nell’erodere il margine di sicurezza di Erdogan è la crescente urbanizzazione della Turchia, anch’essa in parte generata dalla crisi economica: la popolazione della sola Istanbul conta oggi per quasi il 20% della popolazione totale del Paese; il 60% dei turchi vive concentrato in undici città. Di queste, a partire da Istanbul e da Ankara per finire con Smirne e Antalya, la gran parte è governata da sindaci espressi dai partiti di opposizione.

E poi c’è il tema «muscolare». Kilicdaroglu viene definito «il Gandhi turco», un paragone certamente eccessivo che però esprime bene la stanchezza della popolazione, soprattutto quella giovane (e in Turchia l’età media è di 32 anni), per una politica estera e interna con troppi fronti aperti: i curdi in patria e in Siria, il contenzioso eterno con la Grecia, le operazioni di sostegno militare all’Azerbaigian contro l’Armenia, le polemiche con Svezia e Finlandia intorno alla Nato, lo sviluppo impetuoso e costoso dell’industria degli armamenti… Kilicdaroglu ha promesso di riaprire la pratica dell’adesione della Turchia alla Ue e di risolvere la questione Nato anche con gli svedesi.

Insomma, immaginare che la Turchia possa sentirsi un grande Paese anche senza dover costantemente partire lancia in resta contro un qualche nemico, reale o immaginario. Potrebbe non bastare per vincere al ballottaggio, Erdogan ha sette vite come i gatti. Però è bastato per dire a chiare lettere che il cambiamento è possibile. E in certe dighe, anche un piccolo buco può bastare per far crollare tutto.

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