La terza età: ricchezza
che chiede risposte

Adesso la piramide si è quasi del tutto rovesciata e quello che i demografi chiamano l’indice di vecchiaia è schizzato alla stelle. Il rapporto in Italia, rivelato ieri dall’Istat, tra chi ha più di 65 anni e meno di 15 è lievitato al 180%. Nel 1951 era del 33%. Tutto bene perché si vive di più? Niente affatto. Il dato è allarmante. Si tratta della certificazione di una dimensione di massa dell’invecchiamento al quale ci siamo per nulla abituati e senza un’opportuna e corretta riflessione sui problemi di ordine sociale, economico, culturale, psicologico e spirituale rischiamo di scivolare solo nello squilibrio sociale.

Da una parte ci sono i giovani, sempre meno per via del calo della natalità, che dovranno sopportare un gigantesco onere di spesa senza averne adeguate risorse, dall’altra gli anziani, milioni di persone, di cui non sappiamo che fare, se non forse sfruttare per la loro ancora, ma sempre meno, ricchezza e capacità di spesa. I numeri dell’Istat suonano il campanello d’allarme, ma pochi odono, perché gli anziani, quand’anche ricchi e consumatori, in una società dove si sfilacciano le relazioni tra generazioni, sono destinati alla solitudine. E la pandemia ha aggravato la situazione, sbaragliando quasi del tutto la categoria degli «anziani-risorsa».

Gli anziani sono diventati un peso, che può essere sacrificato sull’altare dello shopping e dell’happy hour, sopportabile e autorizzato dall’allargamento della zona rossa della nostra coscienza. Ieri lo ha detto con sagace stoltezza il presidente della Confindustria di Macerata: «La gente è stanca di restrizioni, pazienza se qualcuno morirà». Non si tratta di dissennatezza. Qui siamo alla pazzia. Ha ragione Papa Francesco: «Ciò che non serve si scarta». Eppure senza anziani non si vive. Non vivono le famiglie visto che, secondo una ricerca europea, la porzione di uomini e donne che hanno curato i propri nipoti in assenza dei genitori è di ben il 43% con il dato delle nonne che sale di molto. E senza anziani un Paese perde la memoria, se attorno non ha giovani a cui trasmetterla in eredità. La ricchezza degli anziani è complessa e multiforme, ma diventa virtuosa solo in una società dove forte è la cultura comunitaria, dove quindi il passaggio di consegne tra generazioni non fatica ad attuarsi. Eppure esso va gambe all’aria se una parte è segnata dall’affollamento generazionale e l’altra dall’inverno demografico. Quando poi il cambiamento, marchiato dall’indice di vecchiaia, avviene in pochi decenni, tutto diventa più difficile da gestire e la ricchezza degli anni travolta e annientata.

Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, a cui il ministro della Salute Roberto Speranza ha chiesto di presiedere la Commissione per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana, rileva che oggi per la prima volta nella storia italiana convivono nel Paese quattro generazioni diverse: «Per loro abbiamo costruito un palazzo di quattro piani tecnologicamente all’avanguardia con soluzioni di gran progresso, ma abbiamo dimenticato di installare scale e ascensori». Il dramma sta tutto qui. Concentrare le vecchiaia in universi a parte, ritenere le Rsa investimento redditizio, gustoso boccone per la finanza al contrario dell’assistenza domiciliare lasciata scivolare nella marginalità con esigui finanziamenti, non è stata forse una buona idea. La pandemia ha mostrato omissioni, errori e ora arrivano le inchieste giudiziarie. Ma ha anche sollevato il velo su Paese che non è per giovani e non è per vecchi con il rischio che ogni generazione diventi residuale per poco o per troppo affollamento.

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