L'Editoriale
Martedì 23 Aprile 2024
La Terra siamo noi, una giornata per salvarci
ITALIA. Troppo spesso dimentichiamo di essere un tutt’uno con la natura che ci circonda. Quando Papa Francesco ci ripete che «tutto è collegato», ci ricorda che l’uomo è parte della natura e ne è compenetrato.
Troppo spesso dimentichiamo di essere un tutt’uno con la natura che ci circonda. Quando Papa Francesco ci ripete che «tutto è collegato», ci ricorda che l’uomo è parte della natura e ne è compenetrato. La Terra si salva se si salva l’uomo. Nello stesso tempo, non possiamo più pensare che arrivi sempre, prima o poi, una soluzione tecnologica che fermi gli enormi danni che abbiamo già causato: siamo appena in tempo per evitare effetti ancora più drammatici. La Giornata della Terra, celebrata ieri, è la più importante tra le ricorrenze istituite per ammonirci sulle nostre responsabilità. Fissata dalle Nazioni Unite, nel 1970, un mese e un giorno dopo l’equinozio di primavera, nacque sulla spinta dei movimenti ambientalisti americani che, a propria volta, si ispiravano al libro «Primavera silenziosa» di Rachel Carson del 1962, il testo che per primo denunciò i composti chimici inquinanti usati in agricoltura, in particolare il Ddt. Oggi la Giornata della Terra, «Earth Day» nella versione originale, è un movimento globale: solo in Italia si sono contate 600 iniziative.
Non c’è dubbio che il progresso ci abbia donato meraviglie e un tenore di vita inimmaginabile solo un paio di generazioni fa. Ora, però, non si può più pensare che lo sviluppo possa ancora procedere disaccoppiato dalla tutela dell’ambiente, senza prestare attenzione a tutto l’insieme delle conseguenze che, probabilmente, un secolo fa non si potevano nemmeno immaginare. Innanzitutto, occorre adottare sempre le parole giuste: siamo di fronte a una crisi ecologica e climatica, di cui, inequivocabilmente, le nostre attività sono la causa. Non giova a nessuno negare l’evidenza e mettere la testa sotto la sabbia, come gli struzzi, oppure tenere lo sguardo inchiodato sullo specchietto retrovisore, verso il modello di sviluppo che ci ha condotto fino a qui.
La Giornata di quest’anno era dedicata alla plastica. I benefici sono innegabili: pensiamo solo a come, in campo medico, abbia permesso di semplificare la necessità di siringhe sterili, mentre quelle di vetro si dovevano bollire prima di ogni iniezione. A piatti e bicchieri usa e getta, come quelli dei picnic, possiamo, invece, rinunciare tranquillamente. La plastica è prodotta con gli stessi combustibili fossili che, secondo la comunità scientifica, sono la causa principale del surriscaldamento globale e dei conseguenti cambiamenti climatici. Rappresenta il 12 per cento della domanda mondiale di petrolio e l’8,5 per cento di quella di gas, compromettendo il clima come 600 centrali a carbone e rappresentando il 5 per cento delle emissioni di carbonio. Vi sembra poco? Il settore sta vivendo una traiettoria di crescita esponenziale: la plastica vergine, senza un trattato che ne fermi la produzione, potrebbe addirittura triplicare entro il 2050. Proprio oggi, a Ottawa in Canada, ripartono i negoziati dell’Onu per un accordo internazionale.
Gli impegni sono da sancire e da mantenere: nel 2015 l’Accordo di Parigi ha stabilito di limitare, tagliando le emissioni di gas a effetto serra, il surriscaldamento globale al di sotto di 2 gradi entro fine secolo e di proseguire gli sforzi per circoscriverlo a 1,5 gradi, per evitare conseguenze catastrofiche. Gli studiosi dell’Istituto di Potsdam per la ricerca sugli impatti climatici hanno calcolato che i costi dei danni, provocati dalla crisi climatica, saranno sei volte superiori a quelli previsti compiendo le azioni necessarie. Non bisogna rinunciare alle ambizioni. L’Unione europea, con il Green Deal, si è assunta anche il compito di spronare il resto del mondo alla necessaria transizione ecologica. In questi giorni il Parlamento europeo è chiamato a pronunciarsi su capitoli importanti: il design circolare, i controlli sulla filiera, la qualità dell’aria, gli imballaggi. Più che speculare sui timori e i rischi, si valorizzino i vantaggi e le opportunità, avvertendo, per esempio, che in Europa abbiamo 300mila morti premature all’anno per malattie legate all’inquinamento, di cui 52mila in Italia, dove la Pianura Padana è l’area più colpita.
L’Occidente, del resto, ha una responsabilità storica: il 27 per cento delle emissioni cumulate di CO2, il principale gas serra, sono degli Stati Uniti, il 21 dell’Europa. Le emissioni pro capite di uno statunitense sono, ancora oggi, il doppio di quelle di un cinese. Il senso autentico della sostenibilità è soddisfare le esigenze presenti senza compromettere quelle delle generazioni future, citate ora anche dall’articolo 9 della Costituzione, i nostri figli e nipoti, giustamente i più preoccupati. In questo senso, la sostenibilità non è un costo, ma un investimento, destinato a creare valore e ad aumentare il profitto.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato ragione a un’associazione di anziane donne svizzere che, premurose per se stesse e per i propri eredi, si ritenevano danneggiate dalle politiche del loro Paese insufficienti sul clima. Una sentenza che costituirà un precedente fondamentale per la giurisprudenza. Gli obiettivi, insomma, non si possono più mettere in discussione: la politica deve confrontarsi, doverosamente, sugli strumenti per raggiungerli. Anche il popolarissimo gioco del calcio si mobilita: l’Inter, ieri sera, è scesa in campo con scritte sulle maglie per richiamare la crisi ecologica, dal numero 1 del portiere Sommer con «Abbiamo 1 solo pianeta a disposizione» al 10 di Lautaro sul calo del 10 per cento della biodiversità in soli 14 anni. È una delle strade da percorrere per parlare a tutti.
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