La svolta tedesca sulle spese a debito

MONDO. «È una guerra contro l’Europa» non è solo una guerra, quella di Putin, contro l’integrità territoriale dell’Ucraina.

Con queste parole, il cancelliere in pectore della Cdu Friedrich Merz ha motivato il cambio delle norme costituzionali che sino a ieri impedivano ai governi tedeschi di finanziare spese a debito. Per investimenti al di sotto dell’1% i fondi vanno reperiti nelle pieghe di bilancio ma per impegni finanziari superiori si va a debito senza limiti.

Il riarmo tedesco

Il vincolo di bilancio non è stato abolito nella sua impostazione strutturale, si è solo derogato per far fronte alle spese della difesa. Per gli investimenti in infrastrutture e transizione energetica si è allestito un fondo fuori bilancio, denominato Sondervermögen, di ben 800 miliardi nell’arco di dieci anni. È un cambio di passo che trasforma la Repubblica Federale Tedesca da grande forza economica in potenza militare. Una collocazione inimmaginabile soprattutto per i suoi alleati occidentali. Non va dimenticato che la riunificazione tedesca del 1990 è stata avversata sia dai francesi con François Mitterrand che dai britannici di Margaret Thatcher. E alla fine il pegno pagato dai tedeschi è stato la rinuncia alla potente Deutsche Mark a favore di una nuova valuta europea, l’euro. Che pegno dovranno pagare ora i tedeschi per poter diventare il più potente esercito d’Europa? Che la Bundeswehr diventi fra dieci anni la più grande forza armata del vecchio continente, se nel frattempo non subentrano vincoli al suo riarmo, ce lo dice la storia.

Rheinmetall, il miglior produttore di carri armati a livello mondiale, è schizzato in un anno ad una quotazione di circa 1.500 euro al Dax di Francoforte. Ma tutta la Borsa festeggia, compreso le banche, il punto debole dell’economia tedesca. E questo indice ci fa ricordare che i valori espressi da Commerz Bank sono frutto dell’Opa lanciata da Unicredit che ha costretto il management a mettere mano alle riforme. All’opposizione la Cdu si è dichiarata contro la fusione con l’istituito di credito di Milano, adesso il cancelliere in pectore è chiamato a dar prova del suo europeismo. Draghi l’altro ieri alla Camera dei deputati ha ribadito il concetto dell’Unione dei mercati di capitale. Un passo ineludibile se si vuol impedire che i 300 miliardi di euro che finiscono nella Borsa di New York ritornino a casa. Sarebbe il primo passo verso quegli obblighi che competono alla forza più grande del continente e ora non più solo a livello economico. È lecito dubitare perché per indurre un cancelliere ad andar contro i desiderata del potente Mittelstand, le piccole e medie imprese tedesche, ci vuole altrettanta forza: non economica ma politica.

In Europa manca una voce autorevole

Ursula von der Leyen non ha il peso personale e politico di un Helmut Kohl. E Macron è troppo inviso in patria per alzare la voce. Il presidente francese del resto ha già ottenuto quello che voleva, l’impegno bellico del suo alleato nella guerra contro Putin. Va rimarcato che la preoccupazione del governo Meloni e in particolare del suo ministro degli esteri Antonio Tajani è riassunta in una frase: non siamo in guerra con la Russia. Difendiamo solo il diritto dell’Ucraina a difendere il suo territorio. Per avere un esercito comune occorre prima avere un nemico comune. Cioè una politica estera condivisa. È quindi immaginabile un esercito europeo a formazione variabile ovvero con un nucleo duro fatto di due, tre o quattro Stati e poi a seguire configurazioni intercambiabili a seconda dell’obiettivo. Rimane certo quello che è già una certezza: il ReArm avverrà su basi nazionali. E questo spiega la denominazione. Le armi adesso. Tutto il resto, cioè la difesa a lungo termine, la sicurezza cibernetica, le terre rare, lo spazio è fuori.

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