L'Editoriale
Mercoledì 16 Giugno 2021
La stretta strada
anti debito di Draghi
Il debito pubblico italiano ha raggiunto un nuovo record: 2.680,5 miliardi di euro ad aprile, ha fatto sapere ieri la Banca d’Italia. Il rapporto debito/Pil a fine 2019 era 134,6%. Poi è arrivata la pandemia, con stop alla crescita e via libera ad aiuti pubblici massicci per cittadini e imprese, così il rapporto è salito al 155,8 per cento. Alla conclusione di quest’anno saremo al 160 per cento, una soglia varcata soltanto alla fine della Prima Guerra mondiale. Nonostante un simile primato, l’indebitamento dello Stato ad oggi in Italia. gode di scarsa attenzione nel dibattito pubblico, perlomeno rispetto a un decennio fa quando abbiamo dovuto perfino familiarizzare con il gergo degli addetti ai lavori, vedi alla voce «spread». Siamo dunque diventati meno allarmisti rispetto al debito, oppure stiamo sottovalutando il problema?
Esistono effettivamente alcune ragioni che rendono meno pressanti, nell’immediato, le conseguenze del nostro debito monstre. Il fattore principale di «anestetizzazione» della percezione del rischio è la politica monetaria della Banca centrale europea, in particolare l’acquisto da parte di Francoforte dei nostri titoli di Stato, intensificatosi durante la pandemia. Non solo. Sempre al livello europeo, il sostegno straordinario messo in campo con il programma Next Generation Eu, e l’emissione di debito in comune che ne è alla base, ha fugato ogni retropensiero di un’implosione dell’Eurozona e dei conseguenti rischi per i detentori dei titoli dei Paesi più a rischio (Italia inclusa).
Senza contare che ormai in tutta l’Eurozona il peso del debito pubblico sul Pil ha superato il 100%, il valore più elevato dall’introduzione dell’euro, con un aumento medio di 14 punti percentuali nel 2020. Difficile dunque che, passata la fase più acuta della pandemia, si possa tornare come nulla fosse allo status quo ante. L’Italia, insomma, agli occhi degli investitori, è sì molto indebitata, ma in un contesto internazionale ed europeo di Paesi tutti straordinariamente oberati di debiti e congiuntamente un po’ più attrezzati per farvi fronte.
Tuttavia esistono ragioni altrettanto valide per ritenere che l’eccessivo indebitamento italiano rimanga un problema decisivo per il medio-lungo termine. Primo, perché le misure emergenziali decise dai governi non possono farci dimenticare che le occasioni di intrapresa e di lavoro nascono in primis dall’iniziativa privata, non dalla lievitazione generalizzata della spesa pubblica. In secondo luogo, un indebitamento da record può trasformarsi in un fattore di enorme instabilità finanziaria e poi politica, o viceversa. Come interpretare altrimenti i toni minacciosi con cui l’attuale Presidente del Bundestag (ed ex ministro delle Finanze tedesco) Wolfgang Schäuble, sulle colonne del Financial Times, ha richiamato Draghi a comprimere la spesa pubblica? Non appena l’inflazione negli Stati Uniti ha rialzato un po’ la testa, si sono fatte sentire – soprattutto in Germania – le voci di quanti intendono mettere fine al sostegno straordinario della Bce e alle politiche di bilancio espansive. Che un simile obiettivo sia o meno sensato dal punto di vista economico, poco importa. Ormai sappiamo infatti con quanta rapidità le schermaglie diplomatiche e l’incertezza istituzionale, dai corridoi della Commissione Ue o della Bce, influenzando le aspettative, possano trasferirsi sulle scelte degli investitori e dei risparmiatori. All’arcigno e a volte irrazionale «vincolo esterno», è dunque da preferire – come indicato dal Presidente del Consiglio Draghi – la strada stretta delle riforme domestiche e dei finanziamenti statali oculati che, aumentando la «crescita potenziale» del Paese, rendono sostenibile il debito.
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