La strategia di Salvini per qualche voto in più

POLITICA. Le maggioranze formate da coalizioni di partiti sono strutturalmente esposte a ricorrenti tensioni. Lo spirito, meglio l’interesse di partito tende ad avere la meglio sullo spirito, e ancor più sull’interesse di gruppo.

La sollecitazione a distinguersi è poi di regola destinata a crescere in vista di prove elettorali, tanto più se queste si tengono con un sistema proporzionale. I più motivati a farsi largo all’interno della maggioranza sono i partner minori che soffrono la sovra-esposizione del leader. Il pensiero corre a Matteo Salvini. È proprio il leader della Lega che si sta sbracciando per cercare di risalire dal fondo dell’8-9% in cui è caduto dopo aver toccato solo 4 anni fa alle europee la cima del 34%. L’approssimarsi del rinnovo del parlamento di Strasburgo non ha fatto che intensificare la sua agitazione per non essere travolto dalla Meloni. Niente di strano se cerca di smarcarsi e di conquistare visibilità sui media per racimolare qualche voto dei tanti che ha perso. E’ strana invece la via che ha imboccato per ottenere il risultato che si propone. Tutto in questi casi dipende dal modo che si adotta sia nella forma che nella sostanza.

Pur facendo la tara sulla necessità per Salvini di suscitare un po’ di clamore, pare poco appropriato il linguaggio aggressivo e assai polemico adottato; linguaggio che ha toccato l’acme nella prima uscita in grande stile per l’apertura della campagna elettorale rappresentata dal meeting dei sovranisti europei, a Firenze domenica scorsa. Attaccare l’Europa frontalmente accusandola niente meno che di essere «occupata dagli abusivi» decisi a «fare i loro interessi privati», non è certo un approccio amichevole con Bruxelles che aiuti a spianare la strada, tutta in salita, per strappare in sede europea condizioni favorevoli all’Italia che pure ha una vitale necessità di comprensione nel momento in cui sta trattando partite delicatissime con la Ue.

A parte le questioni di stile, restano le questioni di sostanza. Salvini dovrebbe sapere che, ben che gli vada, non c’è il prossimo giugno successo degli antieuropeisti che tenga perché questa brigata di arrabbiati possa essere, non diciamo determinante, ma nemmeno accettata nella futura maggioranza di governo europea. Che sia Ursula von der Leyen o Mario Draghi (come si vocifera) o chiunque altro, a guidare la Commissione europea, non c’è dubbio che sarà fatta da europeisti. Una linea, perciò, accesamente euroscettica non può portare ad altro che ad un isolamento della Lega in Europa.

Al dubbio vantaggio che questa strategia barricadiera può procurare a Salvini in sede continentale si aggiunge il danno che gli può venire in sede nazionale. Non si vede, infatti come possa aiutare la Lega a risalire la china elettorale in cui è precipitata. Non può di sicuro convincere a ritornare sotto le sue ali il ceto imprenditoriale e il «popolo delle partite Iva», insomma tutto quel mondo produttivo che è stato l’asse portante storico del Carroccio, e non solo nel Nord. Non a caso, paiono soffrire (per il momento in silenzio) la deriva populista del loro segretario le figure rappresentative della Lega nel Settentrione, come i due governatori Zaia e Fedriga e il ministro dell’economia Giorgetti, molto in sintonia con lo spirito imprenditoriale del Nord. I conti elettorali ovviamente si faranno all’apertura delle urne a giugno prossimo. I conti politici, invece, appaiono già oggi alquanto traballanti.

Meloni e Salvini hanno un bel sbracciarsi per assicurare che la maggioranza è salda, che il governo non corre alcun rischio. Restano però le dissonanze, se non gli aperti dissapori. Ultimo in ordine di tempo: la contrarietà ribadita dalla Lega all’approvazione del Mes (il Meccanismo europeo di stabilità), nonostante il pressing dell’Europa che aspetta da tempo l’adesione dell’Italia, unico paese che sinora si è rifiutato di approvarlo. Un’ulteriore nuova prova, questa, che, sotto una superficie formalmente piatta, le acque restano piuttosto agitate.

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