La sfida per il lavoro si gioca sui salari

ITALIA. Il lavoro, negli ultimi mesi, è tornato a essere uno dei temi centrali del dibattito politico.

Si tratta di una buona notizia, a condizione che i partiti – e l’opinione pubblica – si concentrino sulle vere sfide in materia, lasciando da parte invece gli argomenti di stampo eminentemente ideologico e propagandistico. Scoraggia per esempio il fatto che qualcuno nel sindacato e tra i partiti di opposizione sogni di riportare al centro dei riflettori l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, un’anomalia italiana di cui si è discusso per almeno un ventennio a cavallo degli anni 2000, per poi arrivare finalmente qualche anno fa a superare un simile eccesso di rigidità che penalizzava soprattutto le imprese medie e grandi, diventando tra l’altro fattore di incentivazione del «nanismo» industriale. Come pure non c’è da rallegrarsi quando la maggioranza che sostiene il Governo si compiace (legittimamente) per il numero record di occupati, facendo però finta di non vedere che tale incremento potrebbe presto interrompersi con l’affievolirsi della vigorosa ripresa post-Covid.

Soprattutto, l’aumento dei lavoratori non va di pari passo con un aumento degli stipendi medi degli italiani, anzi. Secondo un recente studio dell’Ocse, i salari reali nel nostro Paese sono addirittura scesi (del 2,9%) dal 1990 al 2020, un caso più unico che raro tra i Paesi di antica industrializzazione. Quanto accaduto dopo il 2020, cioè la fiammata inflazionistica generata dalla rapida ripresa post-Covid e dall’invasione russa dell’Ucraina, non ha fatto altro che aggravare la perdita di potere d’acquisto di milioni di lavoratori. I salari reali nel 2022 in Italia sono calati addirittura del 7,3% rispetto a un anno prima, sempre secondo l’Ocse, complice soprattutto il caro energia.

All’inizio di quest’anno, l’Istat ha rilevato qualche segnale positivo: la retribuzione oraria media, tra gennaio e marzo, è cresciuta del 2,8% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Un piccolo passo in avanti che però non basta a recuperare la strada persa, e soprattutto un avanzamento diseguale tra settori. L’aumento tendenziale degli stipendi è stato infatti del 4,7% per i dipendenti dell’industria e solo del 2,6% per quelli dei servizi privati. I salari d’altronde non salgono per decreto governativo. Per farli aumentare, senza sottrarre competitività alle imprese, dovrebbe aumentare di pari passo la produttività dei lavoratori e di tutto il sistema produttivo. Non è un caso che gli stipendi oggi salgano di più nell’industria, specialmente in quei comparti in cui la concorrenza internazionale è più forte e dove la contrattazione aziendale è maggiormente diffusa. Cosa può fare la politica a questo proposito? Legiferare per incentivare formazione (dei lavoratori) e concorrenza (tra gli imprenditori), e allo stesso tempo per rendere più conveniente la contrattazione sul posto di lavoro (tra imprenditori e rappresentanti dei lavoratori).

Quanto invece agli stipendi nel settore pubblico, questi possono essere fatti crescere liberando risorse da impieghi meno produttivi dei soldi dei contribuenti e facendo procedere gli eventuali aumenti di pari passo con meccanismi di valutazione e di premialità da cui la Pubblica Amministrazione non può rimanere più immune. Per gli insegnanti ci si è mossi quantomeno sul primo fronte, quello delle risorse, con un recente rinnovo contrattuale, siglato dall’attuale ministro dell’Istruzione e del Merito Valditara, che fa sì che oggi i docenti italiani a inizio carriera si classifichino quarti nell’area Ocse con uno stipendio medio di 28.113 euro annui, dietro Austria, Spagna e Svezia, e davanti a Paesi come la Francia. Anche se le cose vanno meno bene dopo i primi quindici anni di carriera. Stato e Regioni sembrano invece del tutto immobili su altri fronti, come quello degli stipendi degli infermieri. Secondo il sindacato Nursing Up, i professionisti sanitari italiani dell’area non medica, con un reddito medio di 24.168 euro annui, si attestano nettamente al di sotto della media del reddito nazionale (36mila euro). Da circa otto anni lo stipendio degli infermieri italiani è fermo. Nemmeno la diffusa retorica pro-infermieri degli anni del Covid è bastata a far sì che lo Stato, in vista del nuovo contratto della sanità, trovasse risorse sufficienti per rimediare a questa situazione disdicevole. La politica allora elimini definitivamente l’incompatibilità tra carriera pubblica e svolgimento di attività libero-professionali, al di fuori dell’orario di lavoro, per gli infermieri. Si tratterebbe di una possibilità in più di offrire servizi e creare ricchezza per tutti, di un piccolo riconoscimento concreto in busta paga che varrebbe molto più di tante battaglie ideologiche sul lavoro.

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