L'Editoriale
Martedì 31 Marzo 2020
La scienza è cultura
Cambiare il passo
In Italia non si ritiene che la scienza faccia parte della cultura, tant’è che la scuola è ancora fondata su un’impostazione di tipo letterario-filosofico-artistico. Le discipline scientifiche sono marginalmente presenti, ma manca l’insegnamento della scienza come portatrice di conoscenza attraverso una sua specifica metodologia. Questa è una delle cause per cui il sostegno alla scienza è considerato solo una spesa anziché un investimento che produce salute e ricchezza. Gli economisti insegnano che un euro speso in ricerca ne produce almeno nove nel tempo. Possiamo vedere un po’ di numeri. I dati ufficiali dicono che rispetto al Prodotto interno lordo spendiamo intorno all’1,2 %; ma non è vero, anzitutto perché questa percentuale include la spesa effettuata dall’industria e dalle fondazioni, come ad esempio l’A irc per la ricerca sui tumori.
Inoltre, si calcola che la spesa per l’università sia utilizzata per il 50% a favore della ricerca, un dato certamente eccessivo date le difficoltà economiche in cui vive l’università italiana. Infine, questa esigua spesa manca di continuità, perché i bandi di concorso avvengono ogni tanto, magari saltando un anno, con pagamenti caratterizzati da tempi biblici che non permettono certamente alcuna programmazione. Per fare un confronto, ammesso – ma non è vero – che l’Italia spenda globalmente per la ricerca 22 miliardi di euro all’anno, il Regno Unito ne spende 44, la Corea del Sud 48, la Francia 49, la Germania 87, per non parlare degli Stati Uniti che con quattro volte la nostra popolazione spende 353 miliardi, circa 16 volte di più.
A questa carenza di fondi fa riscontro uno scarso numero di ricercatori. Infatti, per ogni 1.000 lavoratori abbiamo 4,6 ricercatori, ma ad esempio la Francia ne ha 9,1, il Regno Unito 8,5 e la Germania 8,4; dal che risulta che altri Paesi hanno più ricercatori e li pagano meglio. Se abbiamo pochi ricercatori, non possiamo essere in alto nelle liste dei risultati. È vero che il singolo ricercatore italiano produce quanto il singolo ricercatore dei Paesi con cui siamo in competizione, ma se osserviamo il dato globale, cioè quanto il Paese Italia contribuisce alla conoscenza scientifica, scendiamo molto in basso. Ad esempio, se analizziamo il nostro contributo alla ricerca di base, quella che contribuisce alla conoscenza senza alcuna immediata applicazione pratica, siamo in 15ª posizione dopo l’Austria, la Slovacchia e i Paesi Bassi. Siamo al 21° posto per quanto riguarda gli articoli scientifici più citati e al 18° posto fra i Paesi europei più innovativi. Non solo, ma assistiamo ad una continua fuga di laureati e di ricercatori, che il ministero dell’Economia ha stimato costi all’Italia una perdita di 16 miliardi di euro. Questa carenza di risorse e di ricercatori, abbinata alla burocrazia che rende difficile la disponibilità dei fondi disponibili e la possibilità di realizzare la sperimentazione animale, rende molto difficile la competizione per i fondi europei. Abbiamo la metà dei ricercatori degli altri Paesi e perciò non riusciamo a recuperare i fondi che l’Italia deve contribuire all’Unione Europea in rapporto alla sua popolazione. Un altro importante spreco è rappresentato dal fatto che i ricercatori italiani che, pur essendo pochi rispetto agli altri Paesi, vincono progetti milionari europei, non vogliono spendere i soldi in Italia per le molteplici difficoltà citate e vanno a realizzare le loro ricerche in laboratori stranieri.
Mancanza di ricerca vuol dire non solo mancanza di conoscenza ma anche pochi brevetti. L’Italia si ritrova all’11° posto nell’ambito dei Paesi europei, una posizione preoccupante per l’economia, data la mancanza di innovazione che determina prodotti ad alto valore aggiunto.
Se trasportiamo queste considerazioni a livello della ricerca biomedica, la situazione è ancora più preoccupante, perché abbiamo un Servizio sanitario nazionale (Ssn) che spende 115 miliardi di euro all’anno e che ha bisogno di ricerca per poter continuare a mettere a disposizione degli ammalati ciò che serve veramente a livello di diagnostica, terapia e riabilitazione. Con poca ricerca si rischia di divenire vittima del potente mercato della medicina. Non sappiamo molte cose quali ad esempio – per limitarci alla spesa farmaceutica che da sola impegna quasi il 20% della spesa totale del Ssn – le dosi ottimali dei farmaci, per quanto tempo dobbiamo fare i trattamenti, quali siano le dosi da utilizzare nei soggetti anziani, la differenza di efficacia e di tossicità fra maschi e femmine, come aumentare il numero di coloro che beneficiano dell’efficacia terapeutica di un farmaco e così via.
Sono ricerche fondamentali, che non possiamo certamente aspettarci siano fatte dall’industria farmaceutica. Se consideriamo quanto spendiamo in ricerca in rapporto alla spesa del Ssn, siamo nell’ordine dello 0,2%, mentre originariamente era stabilito dovesse essere l’1%. Se facciamo un raffronto con attività meno complesse, l’industria farmaceutica spende il 7% e l’industria dei telefoni ben il 10%. Dovremmo quindi cambiare passo, perché senza ricerca è difficile sapere che cosa serva veramente alla salute personale e pubblica.
*presidente Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs
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