L'Editoriale / Bergamo Città
Martedì 15 Giugno 2021
La salute mentale è un iceberg alla deriva
La tragedia di Ardea, resa ancor più cupa dalla tenerissima età di due delle tre vittime, uccise a bruciapelo senza un perché, è solo la punta di un gigantesco iceberg che continuerà ad andare alla deriva nel mare di una sanità malata, al cui capezzale corrono tutti senza che nessuno se ne prenda veramente cura. La vicenda di Daniel e David, di fatto, servirà per scrivere ancora qualche bel titolone sui giornali, per scavare sul passato del triplice omicida e per affibbiare a questo o a quello la responsabilità di non aver fatto nulla per prevenire tanta ferocia. Dopo di che, spenti i freddi riflettori della cronaca, il tema del disagio psichico nel nostro Paese continuerà a fluttuare nelle terre di nessuno, tra antiche promesse, quasi mai mantenute, e nuovi impegni, che difficilmente qualcuno manterrà.
Se le cose fossero andate diversamente da così, episodi come quello accaduto domenica alle porte di Roma sarebbero numericamente poca cosa rispetto a quanto invece le cronache ci hanno abituato ormai da troppi anni. Quello dell’assistenza psichiatrica italiana è un castello diroccato che perde pezzi ogni giorno, non certo per colpa di chi lo abita - sempre pronto a mettere pezze e rattoppi per cercare di assicurare ai malati e alle loro famiglie un’assistenza la più dignitosa possibile - ma di chi, nel corso degli anni, avrebbe dovuto via via ampliarlo fino a farlo diventare una vera e propria reggia, orgoglio di un modello sanitario che ha pochi eguali nel mondo, ma che sul disagio psichico è stato vittima dello stesso stigma di cui la malattia «gode» nella nostra società. Abile, abilissima, a mettere sotto il tappeto quel che nessuno vuol vedere, lasciando il tema ai margini più estremi della collettività, con «un’equazione» etica semplicemente disarmante: occhio non vede, cuore non duole. A poco più di quarant’anni dalla sua introduzione, c’è da chiedersi dove sia finito lo «spirito libero» che animava la legge Basaglia, grazie alla quale l’Italia venne improvvisamente proiettata nell’Olimpo dei Paesi più avanzati nell’assistenza alle malattie psichiatriche.
Alla chiusura dei manicomi – inequivocabile segno di civiltà di una nazione che metteva coraggiosamente al bando i «ghetti» in cui i malati erano stati tenuti fino ad allora – non si è stati capaci, negli anni, di far seguire le necessarie politiche di sostegno, comprese quelle economiche, assolutamente essenziali per tutelare pazienti tanto fragili e delicati. In soldoni, tanto per restare in tema, i problemi sono sempre gli stessi, denunciati decine e decine di volte, puntualmente presi in carico dalla politica e puntualmente disattesi una volta chiusi i seggi elettorali. Negli ospedali, sul territorio, nelle comunità di recupero mancano medici, psichiatri, psicologi, infermieri, terapisti della riabilitazione, personale d’assistenza, così come latita tutto il tema della formazione, aspetto non secondario in una professione dove è impossibile improvvisare. Non è solo un problema di organici, ma anche di strutture, entrambi pensati almeno dieci anni fa. Il turnover dei primi e la realizzazione delle seconde non sono stati garantiti, così oggi risulta complicatissimo fornire la giusta assistenza a uno spettro di malattie (come la grande famiglia dei disturbi della personalità, sempre più diffusi) dove la cura è efficace solo grazie alla «presenza», alla relazione personale che si instaura tra medico e paziente. Tuttavia se i pazienti sono tanti e i medici sono pochi, va da sé che avere buoni risultati è particolarmente difficile. In Lombardia, ad esempio, il «progetto obiettivo» chiamato ad impostare la cura e l’assistenza psichiatrica sulla base delle linee guida nazionali è vecchio di almeno 15 anni. Nel frattempo il quadro in cui muoversi è profondamente mutato, arricchendosi di situazioni «miste» a cui non è facile approcciarsi senza strumenti adeguati. Uno per tutti, il problema del disagio e dei disturbi psichici connessi all’uso, o meglio all’abuso, di droghe. Nonostante «impazzi» da tempo, resta un tema ampiamente sottovalutato per gravità e urgenza, con buona pace dei pazienti e delle loro famiglie, che difficilmente riescono a trovare sul territorio una risposta adeguata alle loro necessità.
Già, il territorio. Che non solo registra un profondo scollamento tra medici di medicina generale, servizi sociali, servizi psichiatrici e forze dell’ordine - incapaci di comunicare tra loro efficacemente -, ma dove non esistono nemmeno reali supporti su cui i servizi ospedalieri possano appoggiarsi, tanto che se non fosse per il privato sociale (e sul fronte Bergamo resta un esempio di estrema concretezza, non solo in Lombardia), il panorama sarebbe ancor più desolante di quel che è già oggi.
Nel nostro Paese, il rapporto tra popolazione e posti letto per i malati psichiatrici è al di sotto degli standard, e questo non farà altro che moltiplicare le conseguenze del Covid sul versante psichiatrico, uno dei più colpiti dal virus, che certo si farà sentire in un prossimo futuro con maggior incidenza. Per la salute mentale del nostro Paese non è più rinviabile l’adozione di un piano eccezionale di risorse aggiuntive che consenta di assumere personale e di qualificarlo attraverso percorsi di formazione all’altezza dei bisogni. Certo fa più notizia l’acquisto di una «Tac turbo flash» che cattura immagini in un paio di secondi abbattendo le radiazioni del 90% piuttosto che lo stanziamento di fondi per le malattie mentali, ma non dimentichiamoci quel lucido verso di Alda Merini secondo cui «anche la follia merita i suoi applausi».
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