La riforma rischia il populismo giuridico

IL COMMENTO. Nelle democrazie contemporanee la Costituzione rappresenta il fondamento dell’ordinamento giuridico, nonché il patto sociale della convivenza dei cittadini. In ragione di ciò le eventuali modifiche che si intendono apportare alla Carta costituzionale necessitano, di regola, di un procedimento legislativo rafforzato.

Tale soluzione tende a raggiungere due obiettivi: consacrare la centralità del Parlamento, in quanto espressione della volontà popolare, prevedere un accordo tra una parte consistente delle forze politiche. Nella storia dell’Italia unita abbiamo avuto due modelli di costituzione, lo Statuto Albertino del 1848 e la Costituzione repubblicana del 1948. Il primo era un modello «flessibile» e poteva essere modificato con legge ordinaria, al contrario, la Costituzione del 1948 esige un percorso particolarmente «rigido».

La Camera e il Senato devono approvare due volte, a maggioranza assoluta dei componenti, le modifiche proposte al Parlamento. L’approvazione deve avvenire a distanza di non meno di tre mesi. Le modifiche entrano immediatamente in vigore soltanto se ottengono da ciascuna Camera, nella seconda votazione, la maggioranza di due terzi dei componenti. In caso contrario le leggi di revisione possono essere sottoposte a referendum popolare entro tre mesi dalla loro promulgazione. Con ciò gli elettori assumono il ruolo di decisori di fronte a modifiche costituzionali approvate a maggioranza semplice.

Il complesso procedimento di revisione costituzionale ha, fondamentalmente, l’obiettivo di garantire, per quanto possibile, una condivisione larga tra le forze politiche. Con la «carta di riserva» del referendum in caso di modifiche approvate dalla maggioranza semplice dei parlamentari. In tale quadro, saggezza vorrebbe che le ipotesi di riforma della Costituzione fossero frutto di un accordo, almeno di massima, tra maggioranza e opposizione. Al contrario, l’attuale Governo ha deciso di procedere unilateralmente, approvando un disegno di legge senza coinvolgere l’opposizione.

La scelta è di non poco rilievo, se si tiene conto che il progetto di riforma prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio da parte dei cittadini. Una soluzione che inciderebbe fortemente sugli equilibri tra i poteri costituzionali, limitando le prerogative del Parlamento, ma, soprattutto, riducendo a pura funzione simbolica il ruolo del Presidente della Repubblica.

Non a caso, la proposta approvata in Consiglio dei ministri ha sollevato svariate perplessità, in primo luogo da parte delle forze politiche di opposizione, ma anche tra molti giuristi, riguardo ai rischi connessi ad una riforma «sbilenca», finalizzata soltanto a rafforzare il ruolo del capo del governo.

Quali i possibili esiti di tale progetto? È praticamente certo che l’attuale governo riuscirà a ottenere l’approvazione a maggioranza assoluta del progetto, sia alla Camera sia al Senato. Al contempo è assai prevedibile che la riforma costituzionale venga sottoposta a referendum popolare su richiesta di un quinto dei componenti di una Camera o di cinquecentomila elettori, ovvero di cinque Consigli regionali. Si aprirebbe, in tal caso, uno scenario di scontro politico estremamente preoccupante in un Paese già prostrato da profondo malessere e alle prese con l’esigenza di risolvere forti diseguaglianze sociali con soluzioni adeguate.

Peraltro, vi è il rischio (gravissimo) che il probabile referendum possa essere approvato da una minoranza degli elettori. Il secondo comma dell’articolo 138 della Costituzione prevede che «la legge sottoposta a referendum non è promulgata, se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi». Da ciò una pericolosa conseguenza, resa ancora più preoccupante dal crescente astensionismo verificatosi in tutte le tornate elettorali.

Si potrebbe arrivare a una riforma della Costituzione anche con pochi milioni di voti favorevoli, purché maggiori (anche di una sola unità) dei voti contrari. Un vero e proprio paradosso, rispetto al procedimento richiesto al Parlamento. Un insolito «populismo giuridico», che meriterebbe – quello sì – una revisione dell’articolo 138 della Costituzione.

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