La riforma dell’Onu fra urgenza e ipocrisie

MONDO . L’Onu è irrisa per la sua inanità di fronte ai conflitti, l’Ue contestata per l’invadenza nelle politiche economiche dei Paesi aderenti, per le assenze nella gestione delle migrazioni e per l’incapacità di costruire una politica estera e una difesa comuni meno dipendenti dagli Usa.

Ma queste prese di posizione sono segnate da ipocrisia più o meno consapevole. Le organizzazioni internazionali infatti sono ciò che gli Stati membri permettono loro di essere, dalla disponibilità a delegare potere rispetto a competenze cruciali. È evidente l’urgenza di un nuovo ordine mondiale giusto ed equo, dopo la fine di quello della Guerra fredda. Senza una nuova architettura a tutela del diritto internazionale e per la prevenzione dei conflitti, la prevalenza di ambizioni e di appetiti di potenze mondiali o regionali navigherà senza ostacoli nell’anarchia istituzionale che caratterizza questa epoca. Il mondo non è più unipolare: gli Stati Uniti si confrontano con la Cina, impero militare e commerciale, l’Europa non riuscendo a «fare massa» non è il terzo polo, posizione alla quale concorrono la Russia, priva però della stazza economica dei concorrenti, e l’India.

Il 9 settembre scorso, il capo delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Turk, ha dichiarato che «siamo a un bivio. Possiamo continuare sulla strada attuale, una “nuova normalità” insidiosa e camminare nel sonno verso un futuro distopico, oppure svegliarci e cambiare le cose in meglio, per l’umanità e per il pianeta. Gli Stati non devono, non possono accettare il palese disprezzo per il diritto internazionale». Un appello sacrosanto ma che difficilmente avrà seguito. La nascita delle Nazioni Unite fu un’intuizione carica di idealità (lo dice il nome), sulle ceneri della Seconda guerra mondiale e con il monito «mai più». L’organo centrale è il Consiglio di Sicurezza, pressoché immutato dal 1946, fotografia del pianeta che usciva dal conflitto e dal colonialismo, con le potenze vincitrici che hanno un seggio permanente (Usa, Cina, Russia, Francia e Gran Bretagna). Gli Stati Uniti nei giorni scorsi hanno riaperto il trentennale dibattito sulla riforma dell’Onu chiedendo che due seggi permanenti siano riservati ai Paesi africani e un seggio a rotazione alle piccole nazioni insulari in via di sviluppo.

Gli organi decisionali del Palazzo di Vetro devono diventare rappresentativi degli attuali equilibri mondiali. C’è poi il nodo del diritto di veto che i cinque membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza possono esercitare. Quel diritto fa prevalere gli interessi delle potenze e dei loro alleati, non il bene più grande. Andrebbe eliminato ma viene difeso come accade per tutti i privilegi. Altro punto cruciale è la revisione del meccanismo di istituzione delle missioni di pace dell’Onu (66 dal 1948, 16 quelle in corso nel mondo) e delle forze di intervento rapido che è in capo ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza (10 a rotazione) per velocizzare i tempi di dispiego e per «depoliticizzare» le decisioni.

Nel 2025 ricorrerà il 30° anniversario degli Accordi di Dayton che posero fine alla guerra in Bosnia. Per quattro anni l’Europa fu impotente di fronte all’assedio di Sarajevo, il più lungo della storia bellica moderna (12mila morti, 2mila erano bambini), le pulizie etniche e il genocidio di Srebrenica (furono uccisi deliberatamente 8mila civili, bosniaci musulmani). Intervennero gli Usa a porre fine alle mattanze (Dayton è una città americana dell’Ohio): anche in geopolitica i vuoti si riempiono. Le Nazioni Unite erano presenti in Bosnia con un contingente di caschi blu: il mandato era inadeguato, di «peace keeping», di mantenimento di una pace che non c’era, e non di «peace enforcing», di imposizione della pace.

Nel 1994 nell’immobilità della comunità internazionale si consumò anche il genocidio in Ruanda: in tre mesi furono uccisi 800mila tutsi e hutu moderati. La disponibilità a disegnare un nuovo ordine mondiale giusto ed equo, a rilanciare l’Onu garantendole gli strumenti per prevenire o fermare i conflitti, sarebbe un’operazione verità: misurerebbe quali Stati credono in un futuro di pace da costruire, affinché il «mai più» sia davvero «mai più».

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