La reazione dell’Iran
e la vera battaglia

Insomma, la grande paura sembra passata. Le forze armate dell’Iran hanno risposto all’uccisione del generale Soleimani lanciando una pioggia di razzi su due basi americane in Iraq. Razzi che, a quanto pare, non hanno fatto vittime di sorta e provocato danni molto secondari. Donald Trump ha replicato alla replica con un discorso dei suoi, che nella forma accusava l’Iran di ogni possibile colpa (con la sola eccezione, forse, degli incendi in Australia) ma nella sostanza riponeva il fucile. Pare addirittura che le autorità iraniane avessero avvertito quelle irachene dei lanci imminenti. Per evitare vittime civili, certo. Ma forse nella malcelata speranza che avvenisse quanto poi è in effetti avvenuto: e cioè che gli iracheni a loro volta avvisassero gli americani.

Meglio così. Con i terribili massacri siriani freschi nella memoria e la crisi libica più che mai aperta, un’altra guerra guerreggiata sarebbe stata un incubo, e non solo per il Medio Oriente. Trump incassa, a costo politico e militare quasi zero, l’eliminazione di un personaggio importante e influente del fronte avversario, con la relativa dimostrazione di forza. Tutto molto utile per la campagna elettorale con cui vuole farsi confermare alla Casa Bianca. Gli ayatollah hanno mostrato grinta e mezzi, hanno ricompattato il Paese contro l’aggressore esterno e i loro progetti per il Medio Oriente saranno forse rallentati, ma non annullati, dalla scomparsa di Soleimani.

Detto questo, restano i problemi, quelli veri, profondi. L’Iran sarebbe rimasto solo in una guerra contro gli Usa. Ma non è solo nel tentativo di contrastare il dominio geopolitico globale degli americani. Sarà un caso ma solo due settimane prima dell’uccisione di Soleimani si erano tenute le prime esercitazioni navali congiunte di Iran, Russia e Cina. Subito dopo, il ministro degli Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, si era recato in visita di Stato a Pechino, per la quarta volta nel giro di un anno, e con il suo omologo Wang Yi aveva ribadito la necessità di opporsi «all’unilateralismo e al bullismo internazionale». Oggi la Cina e la Russia (che aveva esercitato una mediazione fondamentale per arrivare al Trattato sul nucleare del 2015, firmato da Obama e disdetto da Trump) sono i Paesi che consentono all’economia iraniana di non soccombere sotto il peso delle sanzioni americani. Nello stesso tempo l’Iran è una sponda fondamentale sia per la presenza russa in Medio Oriente, sia per la sete di energia del colosso industriale cinese, che non a caso raccoglie da solo il 30% delle esportazioni iraniane, quasi tutte in gas e petrolio.

Inutile sottolineare che questi tre Paesi sono tutti alle prese con le ire americane. Russia e Iran colpiti da sanzioni, la Cina impegnata nella guerra dei dazi. Era inevitabile che facessero cartello di fronte alle pressioni della Casa Bianca. Ed è piuttosto evidente che Cina e Russia hanno avuto una parte anche nello smorzare, in queste ore, eventuali voglie di conflitto. Vladimir Putin è subito corso a Damasco, la dirigenza cinese ha lanciato una serie di appelli alla calma che avrà di certo accompagnato con altre iniziative, meno pubbliche.

È un conflitto globale che dura da anni (non a caso Obama aveva deciso che fosse l’Asia la priorità della politica Usa) e che ha per posta, appunto, la capacità di condizionare e sfruttare l’economia e la politica planetaria. Con uno sfidato, gli Usa, ancora pieno di muscoli e con nessuna voglia di mollare. È questa la vera battaglia in corso, che durerà a lungo. È tragico dirlo ma, al confronto, un generale e un po’ di missili sono poca cosa.

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