L'Editoriale / Bergamo Città
Mercoledì 28 Ottobre 2020
La povertà digitale
Famiglie emarginate
Viviamo in un mondo digitalizzato. Quante volte abbiamo sentito e letto questa affermazione, al punto di considerarla scontata. E invece è parziale: se infatti 4,54 miliardi di persone oggi sono connesse a internet e circa la metà della popolazione mondiale (3,8 miliardi) utilizza regolarmente i social network, con un incremento del 9% rispetto al 2019, il 40% degli abitanti del pianeta è ancora offline, non ha cioè alcun accesso al web. In prevalenza abita in villaggi nel Sud del mondo, dove, se va bene, c’è soltanto una rudimentale linea telefonica. Sono le vittime della cosiddetta «povertà digitale»: ma non è necessario andare lontano per incontrarle, ci sono anche in Italia e nella Bergamasca.
Secondo un rapporto presentato la scorsa settimana e redatto dall’Auditel (la società che raccoglie i dati d’ascolto delle Tv) e dal Censis (Centro studi investimenti sociali), oltre 3,5 milioni di famiglie (il 14% di quelle residenti nel nostro Paese) è priva di un collegamento a internet o di un telefonino per accedere alla Rete. Altre 6 milioni invece si connettono al web soltanto con il cellulare e quindi hanno un accesso all’online molto precario. Nel 76,9% dei nuclei con limitate possibilità di spesa non c’è neppure un computer fisso, un portatile o un tablet collegati a internet.
La percentuale crolla al 10,2% tra le famiglie di fascia medio alta: il 77% di loro è allacciato alla banda larga, il 19,8% tra i nuclei in difficoltà.
Assistiamo a un paradosso. Già in condizioni normali le vittime della povertà digitale avrebbero bisogno di uscire da questa condizione per poter accedere tramite computer - molte procedure ormai passano da lì - e una buona Rete di collegamento ai sistemi di sostegno del welfare locali ma soprattutto regionali e statali, oppure ai siti per la ricerca del lavoro. E invece ne sono tagliati fuori. Le condizioni sono peggiorate con il lockdown e ora con il ritorno della didattica a distanza per le superiori: se in una famiglia, anche appartenente al ceto medio, c’è un solo computer collegato a internet e viene utilizzato dal padre per lo smartworking, un figlio che frequenta le superiori come può seguire le lezioni da casa? Un preside ha raccontato di un alunno che si chiude in bagno, l’unico luogo dell’abitazione non disturbato, e si collega con la classe attraverso lo smartphone, che non è lo strumento più idoneo per seguire la didattica per 5 o 6 ore ogni mattina. Alcuni istituti prestano portatili agli studenti che ne sono privi o derogano permettendo di andare a scuola.
Anche nella Bergamasca, come abbiamo rilevato, ci sono famiglie emarginate per via della povertà digitale. Ne è testimonianza la quantità di richieste di aiuto, tra le altre, che arrivano alla Caritas diocesana su questo fronte. Ma pure ad associazioni di volontariato locali. Un gruppo di giovani invece ha messo in piedi una bella iniziativa, sotto il nome di «Dalmine solidarietà informatica»: ha ritirato da privati e aziende dispositivi funzionanti ma in disuso che fossero adatti alla didattica a distanza, li ha riattivati e consegnati a 25 studenti che ne erano privi.
Certo, il lockdown non ha solo aumentato le differenze sociali: ha spinto tante persone, anche anziane, che hanno disponibilità economica, ad avvicinarsi al digitale, dal quale erano lontani. È un fatto positivo. Un grande esperto di questo mondo in continua e incessante evoluzione, intervistato da un quotidiano nazionale, si è spinto a dire che il passaggio potrebbe portare in futuro a lavorare quasi esclusivamente in smartworking e a seguire le lezioni scolastiche e universitarie sempre dalla propria abitazione, col vantaggio di ricavare risparmi dalla gestione di edifici ridotti allo stretto necessario e di un alleggerimento del traffico pubblico e privato. Una prospettiva triste che aumenterebbe le distanze sociali. Le relazioni umane dirette restano decisive, tanto più in un mondo che per molti si è rinchiuso nell’individualismo, nella solitudine e ha perso il senso di appartenenza a una comunità. Ai ragazzi poi abbiamo già tolto altri luoghi di socializzazione, di confronto e di crescita, dalle piazze ai cortili dove una volta si giocava e si stava insieme: non togliamogli anche le aule.
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