La politica estera
ha bisogno di continuità

La politica estera italiana dal secondo Dopoguerra ad oggi è sempre stata improntata al dialogo multilaterale. Ancorati all’alleanza occidentale, europeisti al punto da essere tra i Paesi fondatori della Ce, assertori della cooperazione transatlantica, i governi italiani della Prima Repubblica hanno coltivato rapporti di reciproco interesse con l’Unione Sovietica sin dai tempi di Togliattigrad, e hanno mantenuto una posizione di equilibrio nei confronti del Medio Oriente: amici di Israele ma aperti alle rivendicazioni dei palestinesi.

Questa politica, per certi versi inevitabile per un Paese al centro del Mediterraneo e con i confini a est vicini all’area comunista, ci ha consentito, senza rincorrere velleità di protagonismo anche solo regionale, di esercitare un certo ruolo di mediazione che ci ha guadagnato rispetto e considerazione.

Quando si parla dell’Italia come di un «Paese a sovranità limitata» dopo la sconfitta del ’45, si dimentica che la nostra diplomazia e i nostri ministri degli Esteri, da Sforza a Moro ad Andreotti, non erano dei signor nessuno in giro per il mondo, tutt’altro.

La seconda Repubblica ha confermato questo equilibrio sia da parte del centrosinistra di Prodi, cui si deve l’ingresso nell’euro, che del centrodestra di Berlusconi che anzi mitigò l’iniziale euroscetticismo. Berlusconi però radicalizzò alcuni rapporti che, secondo il suo stile, oscillavano tra il personale e il politico: con gli Stati Uniti di Bush jr., con Israele di Netanyahu, con la Russia di Putin, con la Libia di Gheddafi, con la Turchia di Erdogan.

Il problema interpretativo sulla politica estera si pone adesso, con la cosiddetta Terza Repubblica ad impronta giallo-verde. Con la politica estera affidata ad un ministro «tecnico», le differenze tra i due partiti di governo stanno disegnando un quadro poco nitido. Lo si è visto nell’ultimo Consiglio europeo: in quell’occasione il presidente del Consiglio Conte ha sì colto il positivo risultato dello stop alla minacciata procedura di infrazione, ma nella partita sulle nomine si è mosso in modo ondivago, prima offrendo il proprio consenso all’asse franco-tedesco, poi prendendone le distanze allineandosi alle critiche del cosiddetto Gruppo di Visegrad (collegato alla Lega di Salvini), per infine convergere - almeno come governo - sulle decisioni assunte dai francesi e dai tedeschi.

E anche di fronte al confronto tutt’altro che semplice tra gli Usa di Trump e la Russia di Putin, noi stentiamo ad assumere una posizione chiara. Siamo amici di Trump ma i nostri accordi con la Cina sulla Via della Seta hanno non poco irritato gli americani.

Nello stesso tempo restiamo allineati sulle sanzioni alla Russia volute dagli Stati Uniti ma non nascondiamo di cercare strade alternative per fare affari con Mosca. Esattamente come accade con l’Iran. E sul dittatore venezuelano Maduro, osteggiato dai leghisti ma non dai grillini, siamo stati costretti ad un atteggiamento di neutralità che ci ha isolato tra le grandi nazioni.

Sono probabilmente contraddizioni insite nello stesso Contratto di governo tra due forze politiche che restano molto diverse tra loro e che la situazione ha in qualche modo «costretto» a governare insieme. Ma in politica estera, che ha bisogno di continuità oltre la durata dei governi, certe incertezze non giovano e potrebbero comportare un prezzo da pagare.

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