La politica dei like favorisce l’incoerenza

ITALIA. Da quando è stata (improvvisamente) dichiarata estinta la Prima Repubblica, senza che se ne cambiasse la Costituzione, s’è perso il conto delle repubbliche che ne sarebbero seguite: Seconda, Terza, forse anche una Quarta.

Senza perdersi nel gioco delle numerazioni, a noi pare che l’attuale possa, con qualche ragione, definirsi la «Repubblica dell’incoerenza». Incoerenza intesa come cambio repentino e immotivato della linea politica, almeno per quel che riguarda i maggiori partiti. L’incoerenza si può addebitare innanzitutto a Fratelli d’Italia. Il partito della Meloni, come noto, una volta giunto al governo, ha sposato grosso modo le posizioni che ha contestato quand’era sui banchi dell’opposizione. Atlantismo, europeismo, rigore di bilancio, accoglienza degli immigrati, persino una timida apertura alle privatizzazioni, con buona pace del sovranismo e dell’euroscetticismo.

Passando ai Cinquestelle, come chiamarla se non incoerenza la politica adottata dal movimento, dopo che alla guida s’è insediato Giuseppe Conte? S’era proclamato il partito dell’«uno vale uno» ed è passato all’«uno vale per tutti» (Conte, appunto). Per non dire della linea politica. Si vantava di essere un «non partito» né di destra né di sinistra, ed è diventato un partito personale del suo leader, schierato toto corde a sinistra. Per venire poi a dei fatti concreti, un solo esempio: da premier Conte aveva avallato quel Mes che, passato all’opposizione, ha bocciato.

Due casi di incoerenza, due casi di successi. Parecchi guai invece sta incontrando il Pd, da quando s’è avviato sulla strada dell’incoerenza. Lo si è visto in settimana al momento di approvare la conferma dell’impegno dell’Italia a fornire aiuti militari all’Ucraina per il 2024. Il gruppo parlamentare dei democratici ha derogato dalla linea, convintamente seguita fino al 2023, di appoggio incondizionato all’Ucraina. Analogo brusco scarto di atteggiamento sull’abuso d’ufficio. In coro (anche) i suoi amministratori locali ne invocavano l’abrogazione. Il Pd s’è dichiarato contrario. E ancora: il partito della Schlein s’è opposto alla fine del mercato tutelato sull’energia elettrica che aveva prima richiesto. Infine, sul Patto di stabilità europeo, difeso dal commissario Gentiloni, figura di spicco del Pd, il partito ha invece adottato un atteggiamento fermamente contrario, considerandolo «una grande ipoteca sul futuro» dell’Italia. Insomma, la brusca correzione di rotta introdotta dalla nuova segretaria dem alla linea politica precedentemente seguita ha creato al suo interno più imbarazzi - e anche qualche divisione - che non un forte abbrivio al rilancio del partito.

Premiante o meno, l’incoerenza è diventata comunque il tratto caratterizzante della politica nazionale che la differenzia nettamente dai precedenti modi di gestirsi dei partiti. Ai tempi della denigrata Prima Repubblica, anche solo per correggere la linea di un partito era tassativo investire della questione l’intero popolo dei militanti e degli iscritti. Si doveva mettere in moto il complesso meccanismo dei congressi nazionali, partendo dalla periferia per poi celebrare l’assise nazionale. Ora basta la decisione solitaria del leader di turno che, a qualsiasi titolo - eletto, giubilato o imposto - si è impadronito della «ditta», direbbe Bersani.

Osteggiata o meno che sia, è la democrazia leaderistica ad imporsi. Non è al partito che guarda più il segretario nel decidere la linea da seguire, ma agli elettori. Non si indicono più congressi, ci si limita a consultare i sondaggi. Non più militanti, ma follower. Non più dibattiti, ma like.

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