L'Editoriale / Bergamo Città
Sabato 07 Ottobre 2023
La periferia del mondo e l’ostinato dialogo
LA RIFLESSIONE. Era già arrivata la nomina del Papa quando a metà agosto, mentre ero in Terrasanta, incontrai con la mia comunità di Longuelo monsignor Pierbattista Pizzaballa.
Ricordo perfettamente la lapidaria e lucida analisi con cui inquadrava il conflitto israelo-palestinese. La pace? Non adesso, non con queste classi politiche. Quello che fu subito evidente a tutti noi pellegrini longuelesi era il senso di incarnazione che monsignor Pizzaballa comunicava: in quell’indistricabile complessità politico-religiosa lui non era lì per affermare un ruolo. Era lì per rimanere e condividere un destino. Non ricopriva una funzione, sposava un «paradosso» etnico-religioso e socio-politico (per noi occidentali europei incomprensibile): i fratelli dei tre monoteismi non riescono, non vogliono capirsi. Il conflitto israelo-palestinese chiedeva di essere assunto, compreso (letteralmente preso-con-sé). Forse, commentavamo, è proprio da una prospettiva terza – né araba né ebrea – che la realtà la si può meglio guardare. Pizzaballa è quell’uomo credente «creato» sabato scorso cardinale non solo per suonare – come diceva Francesco – in quell’orchestra sinfonica che è la Chiesa, ma per armonizzare le differenti melodie cacofoniche del Medioriente. Rimanendo nella metafora musicale, il Medioriente assomiglia molto di più alla dodecafonia di Schönberg che non a una vera e propria sinfonia. Ma, appunto, l’impresa è enorme.
La scelta di «creare» Pizzaballa cardinale significa, inoltre, dare voce alla periferia più periferica del mondo, là dove i destini delle nazioni si incrociano e si affrontano, dove la madre di ogni conflitto ha origine (e potrebbe/dovrebbe avere la sua fine: sfida enorme). E dove il Dio dei tre monoteismi continua a far litigare tutti. È come se il mondo continuasse a darsi appuntamento in quella periferia – Gerusalemme – che non ha pace anche se nel suo etimo è proprio di pace che si parla. Pace umanamente impossibile – «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27) – ma proprio per questo da sperare contro ogni speranza.
Con la scelta di un cardinale per quelle terre (la prima volta! Nessun patriarca è stato creato cardinale da quelle parti), Francesco prova a indirizzarsi al mondo intero non più riconducibile all’Occidente (idea smontata dallo storico Samuel P. Huntington già nel 1996 con il fin troppo profetico «Lo scontro delle civiltà», molto prima dell’11 settembre). Occorre guardare a Ovest per ricordare che le sorti della pace del mondo sono racchiuse dentro quelle fragili mura antiche che trasudano nello stesso tempo della memoria delle origini (di tutti) e della destinazione ultima e profetica dell’umanità (la Gerusalemme del cielo nel finale dell’Apocalisse). Occorre guardare anche a Est, soprattutto a Est, per immaginare nuove alleanze per il futuro del pianeta stesso e la casa comune.
Dare un cardinale ai cristiani del Medio-Oriente potrebbe sembrare insignificante: la percentuale dei cristiani è pressoché nulla, forse nemmeno l’uno o il due per cento? Ma non è questo il punto. Il punto è incoraggiare l’ancora inedito dialogo anche tra le religioni protagoniste dell’oggi israelo-palestinese e del domani internazionale (prima ancora che politico il conflitto è religioso: le religioni c’entrano eccome, c’entrano ancora) affinché la costruzione della «comunità di destino» generi fraternità universale.
Il cardinale Martini, che dopo la guida della città di Milano decise di tornare a Gerusalemme, diceva all’amico gesuita Georg Sporschill nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme: «A Gerusalemme Dio tocca il mondo. […] La città della pace conosce l’odio. A prima vista Gerusalemme non è neppure la città dell’ecumenismo e del dialogo religioso, bensì la città del conflitto. Qui si concentra la discordia del mondo intero, ma anche la speranza. Qui continuiamo a sentire che lavorare per la pace è un processo doloroso».
Non si può nascondere, infine, che la scelta di Pizzaballa sia stata dettata da una strategia «politica». Una politica magari inerme, perfino perdente, ma ostinata. Sempre da tentare. Come il bene che va fatto, e va osato sempre, proprio secondo l’intuizione del visionario Calvino nel finale del suo «Le città invisibili»: «Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
© RIPRODUZIONE RISERVATA