L'Editoriale
Mercoledì 16 Dicembre 2020
La pena di morte
Strappo di Trump
Negli Stati Uniti vige una tradizione: alla vigilia del Giorno del ringraziamento, che cade a ottobre o novembre a seconda degli anni, il presidente grazia un tacchino, salvandolo dalle tavole degli americani. La festa è un segno di gratitudine verso Dio per il raccolto e per quanto ricevuto durante l’anno trascorso. Ma c’è un’altra consuetudine, seria e decisiva, in quella che consideriamo la più grande democrazia del mondo (lo è ancora, se non in senso geografico?): le esecuzioni delle pene capitali vengono sospese nei due mesi e mezzo che separano l’elezione dell’inquilino della Casa Bianca (a inizio novembre) dal suo insediamento (per Biden sarà il 20 gennaio prossimo).
È così da ben 130 anni. Ma Donald Trump ha deciso ancora una volta di andare cinicamente contro corrente: ha infatti confermato l’esecuzione di una decina di condanne a morte comminate da tribunali federali. Due sono già state portate a termine e tra i detenuti in attesa c’è anche Dustin John Higgs, per il rapimento e l’omicidio di tre donne che però non ha materialmente commesso, per ammissione del suo complice reo confesso, Willis Haynes.
Negli Usa la pena capitale vige ancora in 29 Stati su 50. A livello federale è stata ripristinata dall’amministrazione Trump il 25 luglio 2019, interrompendo una moratoria che durava da 16 anni. I giudici nominati dal governo di Washington possono fare ricorso al boia solo per alcuni reati: alto tradimento, attentati contro il presidente, omicidi di difficile attribuzione territoriale o crimini collegati al traffico di droga. Nel 2020 sono state eseguite 12 sentenze: sette negli Stati e cinque su ordine del governo centrale. In tutti gli Stati Uniti c’è la tendenza a rallentare le condanne a morte (sette è il numero più basso da 37 anni) mentre le cinque comandate dall’amministrazione Trump rappresentano il numero più alto dal 1976. Del resto il presidente uscente ha sempre evocato il patibolo come miglior deterrente contro i crimini. Ma sbagliandosi: le statistiche dimostrano che la pena capitale non ha alcun effetto deterrente contro reati gravi, anzi, al contrario produce un effetto criminogeno. Infatti il tasso di omicidi negli Stati che fanno ricorso alla pena di morte è maggiore di quello degli Stati abolizionisti. Non a caso secondo un sondaggio condotto da «Gallup» nel novembre 2019, per la prima volta la maggioranza degli americani (60%) è favorevole a sostituire le esecuzioni con l’ergastolo. La Chiesa cattolica americana ha chiesto alla Casa Bianca di abolire le esecuzioni capitali.
Nel 1764 Cesare Beccaria, a 26 anni, scriveva nel saggio «Dei delitti e delle pene»: «Parmi un assurdo che le leggi che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio». Parole dettate dalla logica e dalla coerenza morale . La pena capitale è l’equivalente della vendetta, legittimando la violenza che vuole contrastare. Una vendetta ritenuta appagante. Negli Usa alle esecuzioni capitali vengono invitate anche le vittime o i parenti di chi ha subito i crimini, che assistono alla morte del condannato separati da un vetro dal lettino dell’iniezione letale o dalla sedia elettrica. Del resto furono sempre gli Stati Uniti, per restare nel terreno della vendetta, con le loro tv a trasmettere in diretta mondiale l’impiccagione di Saddam Hussein, senza almeno la pietà di schermarne il volto e mostrandolo come un trofeo di caccia.
Ma la pena capitale è un fantasma che periodicamente ritorna nelle paranoie collettive anche di altre società. Secondo il recentissimo 54° rapporto del Censis, gli italiani favorevoli alla condanna a morte sono il 43,7%; la percentuale cresce nella fascia di età tra i 18 e i 34 anni, mentre è molto inferiore in quella dai 65 anni in su. Ciò nonostante i dati relativi ai crimini siano in costante calo da 30 anni: gli omicidi volontari erano 1.794 nel 1990, 308 del 2019. Ma sono diminuiti tutti i reati (con l’eccezione di quelli informatici e di usura), compresi quelli cosiddetti «di strada», che più suscitano allarme sociale. Il fatto che la sicurezza continui a rappresentare una delle principali preoccupazioni dei cittadini non dipende dall’incombere della criminalità, ma da quello che lo stesso Censis definisce come «la paura dell’ignoto e l’ansia conseguente». Che non si risolve con la vendetta.
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