L'Editoriale
Domenica 26 Giugno 2022
La passione per la vita oltre ogni radicalismo
Il verdetto della Corte Suprema che ha ribaltato lo storico verdetto «Roe vs Wade» riaccenda un dibattito serio e non ideologico sull’aborto, anche in Italia. Nessuno può far finta di niente. La sentenza americana annullata secondo il sistema giuridico anglosassone della Common Law è del 22 gennaio 1973. Definiva l’interruzione volontaria di una gravidanza «un diritto». Le conseguenze sono state enormi nella diffusione dell’aborto non solo in America, ma anche oltreoceano.
In Italia, il testo della legge 194 è del 1978, cinque anni dopo, e in qualche modo risente di quell’interpretazione. Oltretutto in Italia - il Paese della crescita zero - sembrerebbe essere andati oltre rispetto allo spirito e alla lettera della legge. L’aborto, le cui cause la 194 si proponeva di affrontare e laddove possibile rimuovere, è stato semplificato e quasi «banalizzato» a furor di popolo (con il referendum). Si è legalizzato l’aborto in nome della «riduzione del danno», per evitare quelli clandestini che potevano portare alla morte della madre, ma in realtà è stato adoperato molto spesso come una pratica contraccettiva senza mai applicare completamente una parte fondamentale della legge, quella relativa ai consultori, che avrebbe dovuto aiutare la donna a tenere il bambino che aveva in grembo.
Come ha detto monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, «di fronte a una società occidentale che sta perdendo la passione per la vita, questo atto della Corte Suprema è un forte invito a riflettere insieme sul tema serio e urgente della generatività umana e delle condizioni che la rendono possibile; scegliendo la vita, si gioca la nostra responsabilità per il futuro dell’umanità».
Il punto focale della sentenza dei «justice» americani (così vengono chiamati i giudici della Corte Suprema) è che l’aborto non è un diritto. Lo sguardo della giustizia si posa oltre che sulla mamma, sulla vita che ha in grembo. Perché se il feto è vita (anche prima dei tre mesi, basta un’ecografia per capirlo), allora è proprio questa vita che ha diritto di vivere ed essere protetta. Naturalmente l’America è il Paese delle contraddizioni. Spesso gli stessi che si dichiarano «pro life» sono a favore della pena di morte e degli arsenali privati di armi. Queste contraddizioni intollerabili sono finite persino nella Corte Suprema, a proposito delle leggi che permettono la detenzione di armi, e la recente sentenza che revoca il porto d’armi obbligatorio nello Stato di New York. Non si considera che la vita è sempre vita in tutte le sue declinazioni: nel grembo di una madre (un grembo sacro, non da dare in prestito), in un letto di un hospice, in un bambino in braccio alla madre su un barcone in balia dei flutti del Mediterraneo, in un condannato a morte.
La cultura dei diritti umani si basa sulla eguale dignità e la difesa dei più deboli e dunque – come diceva il padre della cultura laica Norberto Bobbio – quale essere più debole è quello che cresce nel grembo di una donna? Il diritto di vita e di morte sui figli è legato ai tempi antichi, quando i bambini non valevano nulla. È stato il Vangelo a tutelare per primo la vita dei fanciulli. Un Paese, come il nostro, in emergenza demografica, può cogliere l’occasione per una riflessione comune, senza sterili radicalismi, che tenga insieme l’indiscutibile dignità delle donne e l’inviolabile diritto alla vita. La sentenza della Corte dunque dovrebbe portare anche in Italia a una riflessione e a un dibattito su quella legge, con pacato coraggio e passione per la vita. Quella vita che nasce fin dal suo concepimento.
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