La partita del Nord, la caccia agli indecisi

Salvini, domenica 18 settembre a Pontida, ha schierato le sue truppe e il colpo d’occhio s’è posato sul pratone che in questi decenni ha raccolto speranza, paura, malessere: partecipazione da Nord a Sud, numeri alti come da tradizione, senza essere memorabili. Rito padano rispettato dopo tre anni di assenza per il Covid: un giorno di festa nel luogo che Salvini definì «l’assemblea naturale del popolo leghista», privo però del contorno popolaresco e folcloristico della stagione bossiana.

Più asciutto del solito, meno scampagnata fuori porta, diciamo così, pur nella cornice delle emozioni e della memoria, in cui gioca ancora molto il fattore umano. Pontida è esattamente questo, la sua funzione è codificata: la magia della militanza quale tratto identitario, il momento degli affetti e dell’orgoglio, il senso del reducismo, l’omaggio a Bossi (rimasto a casa per gli 81 anni che compie oggi), la verifica della connessione sentimentale fra il capo e i suoi fedeli. In questo tornante, però, c’era qualcosa di più: il raduno coincide con una fase difficile per Salvini, dalle Prealpi orobiche alla marca veneta. I sondaggi danno in vantaggio il centrodestra a trazione Meloni, ma non sono lusinghieri per il Carroccio. Il Nord, l’area più produttiva del Paese a contatto con l’Europa che conta, fino all’altro ieri il feudo del forzaleghismo, è diventato contendibile?

Mentre Letta a Monza ha fatto la contro-Pontida del Pd inseguendo l’ipotesi di un Nord espugnabile, quello profondo della provincia contrapposto ai capoluoghi in mano al centrosinistra, Giorgia Meloni sta salendo in carrozza nei distretti industriali lombardo-veneti nel tentativo di scippare il tesoretto custodito nella cassaforte del patrimonio leghista. In più c’è lo sbarco centrista nei territori dei ceti produttori. L’appuntamento di Pontida, inventore di simboli che ha segnato le alterne fortune dei lumbard, va quindi raccontato nelle sue mutazioni, fino a quello di estrema risorsa e di soccorritore quando la casa rischia di bruciare: non solo il termometro per misurare gli umori dello zoccolo duro, ma soprattutto il bene-rifugio di una comunità politica consapevole di un destino non ancora definito. È vero che Salvini si sente alla guida del ministero degli Interni e già preannuncia la linea dura: «Rientreranno subito in vigore i decreti sicurezza». Ma ha accompagnato questa sicurezza con l’appello agli astensionisti, perché ci ripensino: segno che non tutti i conti tornano.

Lo «spirito di Pontida», ieri, profumava d’antico, si avvertiva la voglia di «dire qualcosa di leghista» vecchio stile. L’adunata dei fedelissimi può essere vista, per coincidenza dei tempi, come l’approdo sicuro nel momento del bisogno quando si devono organizzare le scialuppe di salvataggio e, quanto a Salvini, il rientro a casa del figliol prodigo che aveva abbandonato la casa del padre. Ecco, infatti, che sono tornate le parole d’ordine storiche che hanno costruito l’identità della Lega e che in questi anni sembravano fuori agenda: autonomia differenziata, delle Regioni, notificata dal referendum del 2017. Una virata verso le pareti domestiche, un ritorno difensivo al primo amore, che non si scorda mai. È toccato ai governatori riesumare quel pezzo forte, cercando di riattivare il ruolo di «sindacato del territorio» che, nel dibattito pubblico, s’era un po’ perso. Uno sguardo all’indietro per andare avanti. Questa volta c’era molto localismo, spazio ai servizi pubblici. Il votatissimo doge Zaia ha ripristinato l’ortodossia del «padroni a casa nostra» e «prima il Veneto» che concettualmente discende dalla filiera del «prima gli italiani».

Anche Salvini ha citato un paio di volte l’autonomia, ma l’impressione è che non l’abbia fatto con la determinazione degli Zaia e dei Fedriga (prendere nota dell’emergente governatore del Friuli), molto attento invece ad abbracciare il Sud, quella componente elettorale che di solito fa la differenza e dove la Lega gioca in trasferta. Un discorso, quello del leader, senza svolazzi, rivolto al portafogli, un semplice riassunto: bollette e lavoro, nel mirino Reddito di cittadinanza e riforma Fornero. Teso a rassicurare alleati e non, in apparenza ecumenico. A Letta («Oggi Pontida è provincia dell’Ungheria») ha risposto con l’ironia e, garantendo sulla competenza, ha detto che agli Esteri andrà un ambasciatore e alla Sanità un medico. Solo un sorvolo sulla politicamente imbarazzante questione Russia, meglio lasciar perdere, un cenno per ricordare che sta con la Le Pen e con Trump. Europa sì, ma non quella di Francia e Germania o della speculazione finanziaria. Difesa della famiglia naturale e del diritto alla vita, «ma senza guerre di religione». Niente di nuovo se non (nella forma scenografica) i sei impegni sottoscritti da Salvini con ministri e governatori, i punti in testa al programma leghista, che potremmo definire il «Contratto di Pontida», una sorta di equivalente padano del (ricordate?) «Contratto con gli italiani» firmato da Berlusconi nel salotto di Vespa. Pontida non ha aggiunto nulla di sostanziale al progetto politico, ma ha lasciato una domanda su quel tappeto verde che ne ha viste di tutti i colori dagli anni ’90 in poi, compresi successi e capitomboli: sarà ancora il forziere del consenso lumbard, la gallina dalle uova d’oro, o si trasformerà nella ridotta padana, a presidio della linea del Piave?

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