L'Editoriale
Lunedì 12 Agosto 2019
La parabola dei 5 Stelle
Un destino segnato
In qualsiasi modo si risolva la crisi, che resti in carica il governo Conte o se ne insedi uno nuovo, «di scopo» o «di garanzia elettorale», che Salvini riesca ad ottenere la convocazione delle urne in tempi ravvicinati o che invece Grillo riesca a scongiurare la fine della legislatura salvando così il Paese da «psiconani, ballerine e ministri propaganda» (fino a ieri suoi alleati), è venuto per i 5 Stelle il tempo dei bilanci. Bilanci che non possono che chiudersi in profondo rosso. Rosso nei sondaggi: meno 50% rispetto ad un anno fa. Rosso nella credibilità: traditi i punti cardine del programma elettorale. Rosso sul fronte della classe dirigente: improvvisata e impreparata. Rosso infine sul punto cruciale di una forza politica propostasi come alternativa al sistema, l’identità: persa per strada.
È gioco facile infierire sugli sconfitti. Ironizzare, ad esempio, sul pluri-ministro Di Maio, promosso sul campo da steward (volgarmente, venditore di bibite) dello stadio San Paolo di Napoli a suprema guida del Movimento e a vice premier. Oppure, mettere alla berlina il ministro delle Infrastrutture Danilo Toninelli che dice di occuparsi del tunnel del Brennero: piccolo particolare, non esiste. E ancora, fare del sarcasmo su un partito che voleva aprire come una scatola di tonno il Parlamento ed è finito inscatolato. È facile burlarsi dei 5 Stelle, ma non si coglie il nocciolo del problema. Avessero avuto il più abile dei leader, la più preparata delle classi dirigenti, si fossero attenuti fedelmente al programma proposto agli elettori, il loro destino era comunque segnato.
È sempre un bagno di sangue per un partito nato e cresciuto all’opposizione passare ai banchi del governo. Il Psi, un partito comunque non rivoluzionario, subì addirittura una scissione quando decise (siamo nel 1964) di mettersi a braccetto con la Dc. Circa dieci anni dopo (nel 1976) al Pci di Enrico Berlinguer non bastò esser diventato socialdemocratico per reggere alla prova di aver permesso (non diciamo di aver sostenuto, men che meno, assumendo responsabilità ministeriali) l’insediamento di un governo di larghe intese sempre con la Dc. Tre anni dopo (nel 1979) si ricredette e, ciò nonostante, fu severamente punito dal suo elettorato.
Stiamo parlando – si badi bene - pur sempre di forze solo di opposizione, non anti-sistema com’è - e vuole essere - il M5S. Per avere un’idea dei progetti avveniristici coltivati dal Movimento, ricordiamo che si sono impegnati a realizzare una democrazia diretta, prevista dall’ideologo, Gianroberto Casaleggio, addirittura per il governo mondiale (in parole povere, saremo tutti incollati al computer a decidere su tutto), la decrescita felice (per la felicità dei prevedibili licenziati), la riduzione dell’orario di lavoro a parità di stipendio (con buona pace della manifattura italiana, condannata a subire la concorrenza estera).
Un partito che sale al governo è condannato sempre a misurare le sue ambizioni con la realtà. Ma un partito che pretende di rivoltare la realtà come un calzino corre il serio rischio di farsi schiacciare nella morsa stretta tra l’utopico e il possibile. In genere, i partiti rivoluzionari si normalizzano dopo la rivoluzione. I 5 Stelle si sono normalizzati invece, salvo coltivare sulla piattaforma Rousseau l’originaria vocazione anti-sistema, prima di aver fatto la rivoluzione. Ci aveva provato nel 1946 l’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, anch’egli teatrante di professione come Grillo. Due anni dopo, alle elezioni del 1948 scomparve.
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