La nuova Sanità
salvi l’ospedale

Chissà perché ogni qual volta ci sia da approvare una riforma importante si debba ricorrere sistematicamente alle sfiancanti «maratone» in Aula. Da oggi e fino al 26 novembre, il Consiglio regionale lombardo sarà infatti chiamato ad esaminare la tanto discussa riforma sanitaria. Ce n’era bisogno? Sì, senza alcun dubbio, e per due motivi. Il primo per tentare di raddrizzare alcune storture che la riforma voluta da Maroni cinque anni fa ha evidenziato fin da subito, soprattutto nel rapporto tra ospedali e territorio, ancor più traballante rispetto al passato. Il secondo per cercare di colmare tutte quelle lacune che la pandemia ha messo a nudo, o - meglio - ha messo a nudo a quella politica che di sanità (pubblica) non si è mai occupata e che l’ha subito trasformata in un tema populista, capace di attrarre consensi elettorali senza troppa fatica.

Si è riusciti nell’impresa? Se dovesse passare dal numero di emendamenti (1.900) e di ordini del giorno (4.600) presentati dai gruppi di opposizione, la risposta sarebbe scontata, ma una mole così massiccia di «mozioni» sembra più strumentale che altro, ritenendo impensabile un ribaltone dell’impianto proposto dalla maggioranza. Nella forma, il testo presentato è sostanzialmente ineccepibile, all’insegna del «politicamente corretto», prevedendo una larga compartecipazione di tutti i soggetti in campo (medici di medicina generale, pediatri, medici ospedalieri, infermieri, farmacisti…) per dare risposte concrete ai cittadini e ai loro bisogni. La riforma però sembra scritta da Milano per Milano, con la «convinta» convinzione che la sanità meneghina sia lo specchio della sanità lombarda. Purtroppo non è così, è solo un undicesimo del tutto, che non può certo fare scuola per le altre province.

Per quel che riguarda Bergamo, il primo punto da modificare (e chi ha il potere di farlo è pregato di prenderne buona nota) è la mancata trasformazione del «Papa Giovanni» in azienda ospedaliera, privilegio concesso entro 24 mesi dall’approvazione della legge soltanto agli ospedali dell’area metropolitana milanese, previo riordino complessivo della rete d’offerta del territorio. Entro 36 mesi dalla creazione di queste nuove aziende ospedaliere, la Regione potrà istituirne altre sul resto del territorio, il che vuol dire - se siamo fortunati - che il nostro ospedale diventerà azienda ospedaliera tra non prima di cinque anni. Al di là che è inevitabilmente destinata a creare squilibri nell’area metropolitana (la rivalità tra i presidi di Milano è accesissima…), non si capisce quale sia la logica che sottende a tale scelta. Il «Papa Giovanni» ha bisogno di tornare fin da subito quell’azienda ospedaliera di rilievo nazionale che è sempre stata in virtù dell’eccellenza che ha via via dimostrato nel tempo, e che ha permesso alla sanità lombarda di scrivere indimenticabili pagine di storia della Medicina. Tutelare questa «missione» dell’ospedale di Bergamo (così come ad esempio dei «Civili» di Brescia) deve essere «un dovere» per Regione Lombardia, che non può certo consentire di tenere «schiacciato» il «Papa Giovanni» sull’assistenza primaria. Lo dice la storia di questo ospedale, destinato all’alta specializzazione e alla ricerca, due obiettivi che mal si conciliano con la gestione della realtà territoriale a cui oggi è chiamato. Dire che ciò potrà avvenire tra cinque anni (se tutto andrà bene) è sostanzialmente una menzogna, perché da qui ad allora la nuova riforma avrà introdotto una serie di principi che faranno del «Papa Giovanni» una struttura impossibile da scardinare dai meccanismi territoriali a quel tempo ormai in atto.

Nonostante fosse stata sbandierata fin dall’inizio come necessaria e imprescindibile, il vero problema di questa nuova riforma è che non si è messo mano a una reale riorganizzazione territoriale , né per gli ospedali per acuti (non è possibile che facciano tutti le stesse cose…), né per il territorio stesso. Difficilmente «l’assegnazione» dei medici di Medicina generale alle Asst porterà i frutti sperati (la libertà di scelta del paziente dove farsi curare resta comunque un caposaldo della legge, con tutte le conseguenze del caso), così come lo «svuotamento» delle Ats non fa altro che mettere in luce un altro grosso problema non risolto: il livello inadeguato del management sanitario lombardo. Non è colpa del sistema se le Ats non funzionano a dovere, ma è colpa di chi le dirige, ed è sotto gli occhi di tutti che manager capaci raggiungono risultati diversi da quelli meno capaci, al di là che Regione Lombardia, a fine anno, li valuti tutti alla stessa maniera (il «90» politico di quest’anno lo conferma).

La riforma dice di voler equilibrare il rapporto tra pubblico e privato, innescando una sana competizione tra i due, ma sul management il privato non scherza, mettendo in campo manager di primissimo livello, che dei miti omologhi pubblici ne fanno un sol boccone. Senza contare che il documento di programmazione su cui si basa ancora oggi la sanità lombarda è vecchio di almeno dieci anni.

Senza il riordino di cui si è detto, anche le novità introdotte dalla riforma rischiano di non decollare. Le «case di comunità» sono la bella copia degli attuali Distretti: ok ai finanziamenti per mettere a nuovo le strutture, che poi, però, vanno riempite di nuovi servizi, non di quelli spostati da altre zone per concentrarli in un’unica sede. Il rischio è di impoverire ulteriormente il territorio, dove oggi una «diluizione» dei servizi è più apprezzata dall’utenza. Così per gli ospedali di comunità per i sub acuti, i «Pot» di oggi un po’ più avanzati, ma una sorta di «scommessa» se prima non si è messo mano al riordino dei presidi per acuti.

Sullo sfondo resta il problema più grande: la carenza di personale. Qualcosa per risolverlo lo si è iniziato a fare, ma i risultati non si vedranno tanto presto. E senza risorse umane non si riuscirà ad andare troppo lontano. Il povero Filippide dovrà sì correre per annunciare la vittoria agli ateniesi…

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