L'Editoriale
Mercoledì 12 Giugno 2019
La mini flat tax
Si evitino avventure
L’insistenza con cui Matteo Salvini parla di flat tax costringe ad approfondire questo tema, nonostante lo scetticismo di tutti gli esperti e la severità dei numeri. Se anche fosse in versione famiglia, e costasse «solo» 17 miliardi anziché 50, sommata ai 23 della cancellazione dell’aumento Iva, porterebbe a quota 40 e saremmo solo a due voci, mentre fisiologicamente ci sono altri 10 miliardi da conteggiare per il 2020. In vecchie lire, 100 mila miliardi almeno. Intimiditi da mister 34%, i due inquilini del comune pianerottolo di Palazzo Chigi cercano di arginarne l’esuberanza. Conte si rifugia nelle parole di Ignazio Visco e chiede una riforma fiscale «organica» e Di Maio chiede che non venga penalizzato il ceto medio.
Sembrano due «ni», ma in realtà sono due ossimori. Le riforme organiche sono cose da governi forti (non è il nostro caso), che le tasse le alzano, compensandole con giganteschi condoni. Quanto al ceto medio, è la matematica che condanna l’idea. Solo chi è vicino al limite alto guadagna passando dal 38% attuale al 15%, mentre il 60% dei «beneficiati» porterebbe a casa una riduzione di poco più di mille euro, cancellata però dalla caduta di deduzioni e detrazioni.
E trattandosi, pare, di valori familiari, avremmo un formidabile disincentivo al lavoro femminile, perché il secondo introito provocherebbe una pesante tassa complessiva.
Flat tax è un tema serio, intendiamoci. In astratto, economisti di scuole diverse, dal liberista Friedman al laburista Atkinson, ci hanno lavorato. Ma nessun Paese l’ha davvero applicata, salvo per brevi periodi gli ex comunisti, per i quali era però una tappa verso una tassazione prima del tutto sconosciuta. Il punto forte dell’idea è dare ai cittadini una maggiore autonomia nella costruzione del proprio destino, in un rapporto leggero e non invasivo con lo Stato, ed è teoricamente vero che un fisco moderato combatte di per sé l’evasione e restituisce nel tempo più risorse al pubblico. Il punto debole è la necessità che la flat tax sia davvero sostitutiva di tutta la giungla di eccezioni. E qui sta il difficile, perché sia le deduzioni doverose, sia quelle frutto della pretesa corporativa di minoranze, sono politica allo stato puro e qualsiasi partito, soprattutto nell’era delle promesse mirabolanti, fatica a resistere a reazioni spesso furibonde.
Una flat tax vera (e non a 2-3 aliquote come quella del contratto), però, o è choccante, o non serve a nulla. Per ribaltare un sistema fiscale, ha ragione Salvini a parlare di un 15%, mentre è velleitario stare circa 10 punti più su, come prometteva in campagna elettorale Berlusconi (nel 1994, aveva scelto il 33%, anche allora senza riuscirci…), confortato in questo da studiosi di scuola liberale come Nicola Rossi, che si collocano al 25%. L’unico esito sicuramente negativo è però cercare dei piccoli compromessi. La mini flat tax dell’attuale governo per le partite Iva ha per ora solo moltiplicato quelle false, tolto occupazione marginale ma esistente e facilitato pratiche in nero.
Anche per il futuro, dunque, si evitino avventure. In un attimo si può far collassare l’intero sistema dei conti pubblici senza neppure avere il conforto del consenso dei presunti beneficiari. Le splendide idee del reddito di cittadinanza e di quota 100 sono lì ad ammonire.
La situazione, già appesa ad un filo un anno fa, ma sostenibile, si è pesantemente aggravata in tutti gli indicatori: debito, spread, sviluppo, occupazione (Istat di questi giorni: -32 mila occupati, più 2 mila precari).
È più facile parlare di meno tasse che di (inevitabili) tagli alla spesa, ma dato il quadro politico che fornisce come alternativa non un’altra maggioranza ma le elezioni, sarebbe doveroso che sia chi ha gestito i problemi ad impegnarsi ora a risolverli. Sarebbe finalmente un merito.
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