L'Editoriale
Giovedì 03 Giugno 2021
La media impresa è il fulcro per ripartire
Dopo un anno e quattro mesi di pandemia, la semiparalisi delle attività produttive, la riduzione drastica della vita sociale e delle relazioni umane, un debito di circa 160% del Prodotto interno lordo, per il Paese è tempo di bilanci. Lo fanno tutti in Europa ma ognuno ha la sua peculiarità. La Commissione europea ieri lo ha ricordato con la lingua asettica dei tecnocrati: «L’Italia presenta squilibri eccessivi. Le vulnerabilità riguardano l’elevato debito pubblico e la protratta debole dinamica della produttività, che hanno rilevanza transfrontaliera in un contesto di fragilità del mercato del lavoro e del settore bancario». Morale: l’Italia impensierisce non solo per la mancata crescita, ma per la disoccupazione e la fragilità del sistema bancario. Mario Draghi conosce per filo e per segno i problemi dell’economia italiana, ne vive le ansie e per fugarle è andato a Sassuolo, nel distretto della ceramica, un luogo di produzione e di successo.
È la sua prima uscita da quando è presidente del Consiglio e la scelta di una località del made in Italy dice con il linguaggio dei simboli quale è il baricentro della ripartenza, l’impresa. Dal 1999 al 2019 il Pil in Italia è avanzato del 7,9%, in Spagna del 43,6%, in Francia del 32,4% e in Germania del 30,2%. Sono ormai vent’anni che la Cina è membro nel Wto (Organizzazione mondiale del commercio) e lo strappo di Seattle non ha ancora cessato di pesare sul sistema industriale italiano. Impreparato allo choc di una liberalizzazione selvaggia, il mondo produttivo ha capito tardi che il tempo delle lavorazioni a basso valore aggiunto era finito. Il risultato è stato un Pil per ora lavorata cresciuto in Italia del 4,2% contro il 21% di Francia e Germania. Tutto questo ha pesato anche sulla politica nella convinzione che lo Stato sociale dovesse sopperire ai mali causati dalla crisi economica. Verità indiscutibili che però hanno finito per mettere in sordina il problema centrale: la definizione di una strategia industriale per lo sviluppo economico.
La realtà produttiva nel frattempo ha sopperito all’inerzia politica di un Paese diviso. Mentre i grandi gruppi industriali che hanno fatto l’Italia del Dopoguerra, Pirelli, Italcementi ecc. sono passati a mani straniere o si sono ritirati, è avanzata una seconda linea di piccole e medie imprese in settori centrali della produzione come l’elettrotecnica, l’elettronica, la meccanica e l’automobilistica. Nel report di «L’Economia -ItalyPost» la loro crescita media annua è calcolata intorno al 10%. È un settore centrale che garantisce l’export a quota 585 miliardi nel 2019 ed una percentuale di incidenza sul Pil cresciuta dal 24,9% del 2010 al 31,7% di due anni fa. Le chiamano industrie Champions e 139 di loro hanno i loro siti produttivi in Emilia, proprio nella terra del lambrusco. A testimonianza che l’industria può convivere con l’agricoltura e segnare anche un cambio di passo nella politica demografica.
Sarà un caso ma nelle province che segnano la resilienza economica del Paese (Parma, Modena, Bologna, Rimini) la popolazione è aumentata. E qui tocchiamo un altro punto sottolineato da Draghi: si tiene se si è uniti. Il che vuol dire anche che l’integrazione degli emigrati è decisiva per la ripresa. Il Paese ha bisogno di energie fresche. Valga per tutti BionTech di Magonza sul Reno. I fondatori sono una coppia di origini turche. Lui, Uğur Şahin, figlio di un operaio emigrato dall’Anatolia, lei Özlem Türeci, figlia di un chirurgo trapiantato in Germania. Insieme hanno inventato il vaccino che sta salvando l’ umanità dalla pandemia. Ma hanno scritto la favola moderna della nuova Europa: l’integrazione crea lavoro e a volte anche successo.
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