La Manovra balla
Incognita Renzi

Ogni Legge di bilancio sconta un peccato originale: è un «vorrei ma non posso», ai più risulta insufficiente a prescindere e lascia l’amaro in bocca, per poi essere manipolata nel Vietnam parlamentare dall’assalto alla diligenza dei peones in cerca di consenso delle singole corporazioni. Quello che è un passaggio obbligato nel ridefinire il rapporto fra Stato e contribuenti diventa sempre, per un riflesso condizionato, una fonte di guai, un contenitore dove finisce di tutto, se non un tritatutto. Anche perché le questioni di merito vengono piegate per regolare i conti in sospeso e misurare i nuovi protagonismi: si dice legge di bilancio, intendendo però altro.

Lo è anche stavolta, senza sorprendersi più di tanto delle fibrillazioni, perché non ci sono margini finanziari per tagli storici delle tasse (quelli che garantiscono un relativo sostegno popolare) ed è già bello che sia stato bloccato l’aumento dell’Iva. Con una differenza: l’anno scorso il tema era se uscire o meno dall’euro, ovvero come farsi del male ballando sul Titanic, oggi, nel benvenuto ritorno a casa, è come restare nel ritrovato sodalizio.

Persino Salvini, in fase di indietro tutta, sembra di questa idea. Di nuovo c’è lo squilibrio fra un governo nato debole e nel segno del trasformismo, un’alleanza fredda senza granitiche convinzioni di potercela fare, e le urgenze di un Paese chiamato a completare quel ciclo riformista che pure nel triennio 2015-2017 c’è stato. Un po’ tutti gli attori vivono sospesi nel vuoto di un sistema politico devastato e in cerca di nuovi equilibri, privo di baricentro e sostanzialmente orfano di leadership. Non c’è un futuro programmabile e in cambio assistiamo a repentini cambi di idee: basti pensare al frettoloso via libera ottenuto e ai tanti problemi sollevati dal taglio dei parlamentari, a cominciare dal rimettere mano a una nuova legge elettorale, l’ennesima. Il menù di oggi (domani vedremo) serve il fuoco amico del tandem Renzi-Di Maio che cannoneggia il quartier generale difeso dalla coppia Conte-Zingaretti. Confronto fisiologico, si dirà, eppure si continua a ripetere che questa strategia di logoramento rischia di mettere nel conto un rapido precipitare della situazione dopo il varo della manovra.

Per restare a Renzi, un campione sempre pronto allo scatto ma incauto nei passaggi successivi, il leader di Italia viva contesta quota 100, la guerra al contante e la stretta alle partite Iva. Quasi la ricerca di uno spazio nel ceto medio produttivo, area Nord, certo presidiata dalla Lega di governo, ma molto meno da Salvini. Tuttavia la posta in gioco di Renzi, sempre che sia leggibile e non è detto, va vista nel più ampio ridisegno dell’area centrista in via di dismissione da quel che resta di Forza Italia e sguarnita da un Pd romanocentrico e un po’ vintage. Quel mitico centro, se le cose stanno così, magari in versione di centro radicale alla Macron, che nella Seconda Repubblica ha quasi sempre procurato delusioni a chi se l’è intestato. In sostanza: se Zingaretti prefigura un «orizzonte strategico» con i grillini, Renzi, che pure è socio fondatore del governo, ne ridimensiona il campo ad un’alleanza a tempo. La Leopolda, pur confortata da una nutrita partecipazione, dovrebbe essere una rifondazione del renzismo, ma non pare avere lo smalto di un tempo, l’acuto del colpo di teatro. Allora il talentuoso fiorentino cavalcava la novità della leadership, oggi è alla guida di una formazione il cui consenso virtuale non appare memorabile.

Sabato era il leader del 41%, ora viaggia fra il 4 e il 5%. Anche chi ha riconosciuto a Renzi la tempra del condottiero pop, le virtù del riformista, e quando serve la grinta del movimentismo tattico, non ha ancora capito quale sia il suo progetto politico e dove intenda andare a parare. Avrebbe potuto condurre la propria battaglia nel Pd per aprire una grande fase dialettica, peraltro necessaria di fronte alla onesta ma pallida segreteria di Zingaretti, e magari tentare di nuovo la scalata ai vertici, e invece ha scelto di chiamarsi fuori ingaggiando il contenzioso con il premier. Avrebbe potuto essere un ricostruttore, rischia di essere visto come un guastatore. Avallando il sospetto che il cecchinaggio si riduca ad un attivismo corsaro per impallinare quello che alla lunga potrebbe diventare un pericoloso competitore: Conte. Perché l’altra novità, mentre i grillini divisi pagano le disinvolture pregresse e il travaglio di una maturazione tutta da verificare, riguarda appunto il capo del governo: il Conte 2 ecumenico cerca di far dimenticare il Conte 1 l’avvocato del popolo e, nel mentre, si ritaglia uno spazio personalizzato di federatore del centrosinistra. In piccolo, naturalmente, rispetto a chi l’ha preceduto in questa tessitura. Ma l’ordine di grandezza e la condizione fisica del sistema politico sono esattamente questi: piccoli e fragili, di salute cagionevole.

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