La linea sull’Europa e il peso dei conti

MONDO. L’astensione di Giorgia Meloni sul nome di Ursula von der Leyen, il più accreditato per un secondo mandato, e la bocciatura italiana dei candidati portoghese ed estone a capo del Consiglio Europeo e della diplomazia europea pongono il problema dell’identità e dello schieramento.

Dopo le ultime elezioni europee il discrimine è uno solo: tiepidi con la Russia di Putin o il riarmo dell’Ucraina? E quindi di converso un’Europa forte o una frammentazione in tanti interessi nazionali? Su entrambi i fronti il sì del governo italiano è chiaro e definito. E lo è anche quello del partito di Giorgia Meloni. La partita però si gioca in Europa e se guardiamo al raggruppamento Ecr (Conservatori e riformisti europei) troviamo nella sua ragione sociale il conservatorismo ma anche l’euroscetticismo in una collocazione che va dalla destra all’estrema destra. Del governo italiano nella sua azione in Europa e nella politica internazionale tutto si può dire tranne che sia euroscettico. Nel gruppo Ecr però albergano forze politiche come Vox in Spagna e il sovranista PIS polacco dei quali non si può dire altrettanto.

Quando Giorgia Meloni parla lo fa a titolo del suo gruppo tendenzialmente euroscettico o del suo partito la cui fede atlantica è collaudata e che in Europa ci sta criticamente, ma ci sta? Il capo di governo italiano vive questa ambiguità. In Europa la Francia ha sempre pensato di aver la primogenitura e ha imposto oltre alla lingua ufficiale il suo modello organizzativo. Le direzioni ancor oggi sono dominate dalle tecnocrazie modello grandi scuole di amministrazione francese, del genere Ena (Ecole nationale d’administration). Diventate nel tempo tanto potenti da incutere soggezione ai commissari che le presiedono. Il governo italiano che ora tanto preme per aver un commissario di peso e una vicepresidenza con deleghe importanti sta valutando la candidatura di Roberto Cingolani, attuale ad di Leonardo, uno che non ha bisogno di corsi intensivi di inglese e che la burocrazia la comanderebbe e non ne sarebbe comandato.

E poi arriva la Germania che ama stare in seconda fila perché gli affari non si fanno mai alla luce dei riflettori. Questo binomio ha retto finché i partiti tradizionali, cristiano popolari e socialdemocratici, han tenuto banco. La Spd tedesca ha adesso in Germania meno voti di Afd, partito criptonazista, e di fatto uniti a Verdi e Liberali sono meno del 30 % nel loro Paese. I cristiano-democratici, è vero, sono cresciuti e da soli fanno quello che il governo semaforo a Berlino insieme totalizza. Sono il gruppo più numeroso al Parlamento europeo ma capiscono che l’alleanza con socialdemocratici e liberali sta diventando stretta. Hanno il problema di essere scavalcati a destra. Ed è qui dove Roma cerca di inserirsi.

Tutto ha una sua logica per chi cerca di accreditarsi come forza affidabile di governo anche a livello europeo. Il problema è la collocazione. Se non si è d’accordo con i partiti cosiddetti tradizionali perché mai insistere nel voler condividere le trattative e quindi i posti di governo? Chi è all’opposizione fa opposizione. I programmi di chi è al governo vanno combattuti a viso aperto. Oppure li si appoggia ma sempre in modo trasparente. È la contraddizione che si vive a Roma.

Viviamo tempi ibridi, l’elettore vuole cambiare tutto senza perder niente. Poi conta la condizione del proprio Stato di appartenenza. Se si ha dietro di sé un Paese che vanta su 206 indagini europee sull’uso dei fondi del Pnrr, ben 179 intestati all’Italia, e che al contempo ha preso l’impegno di ridurre la propria spesa di 12 miliardi all’anno, lo 0,6 del Pil quando quest’anno la crescita di meno dell’1% si è sotto schiaffo. E questo spiega l’attivismo di tutti i governi italiani in Europa. Quello di Giorgia Meloni non fa eccezione.

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