L'Editoriale / Bergamo Città
Lunedì 05 Agosto 2019
La giustizia ci riguarda
perché serve equilibrio
La «fumata nera» nel Consiglio dei ministri non sorprende più di tanto. Il governo ci ha abituati a fasi di stallo che si ripetono con monotona cadenza a giorni alterni. Il disegno di legge Bonafede, portato in discussione senza esito, potrebbe addirittura essere rubricato come secondario, perché non legato alle quotidiane esigenze materiali dei cittadini. Al contrario – basta rifletterci un attimo, distogliendo gli occhi dal telefonino o rinviando di qualche minuto di partecipare a una chat sui social – il tema della giustizia riguarda da vicino ognuno di noi. A prescindere dal fatto che abbia o possa trovarsi ad avere a che fare con un tribunale, oppure sia coinvolto (di sua iniziativa o suo malgrado) in una vicenda giudiziaria.
L’esigenza di arrivare a una riforma della giustizia, sia nel senso dell’esercizio della funzione giudiziaria, sia riguardo ai soggetti chiamati a esercitarla, prende le mosse da un fatto incontestabile: la giustizia funziona male, è lenta, farraginosa, sovente si traduce in un’ingiustizia di fatto, perché favorisce scappatoie a coloro che violano leggi o commettono reati, negando il giusto ristoro a quelli che hanno subito un torto o sono stati vittime di reati. Quali che possano essere le opinioni sulle strade da scegliere, è fuori di dubbio che occorre trovare soluzioni equilibrate, le quali – dopo un confronto approfondito – procurino maggiore fiducia nella giustizia. Il che si traduce in certezza del diritto e in legittimazione dei poteri pubblici che quella fiducia devono ispirare.
Senza entrare nel merito di un progetto di riforma che i leader dei due partiti di governo definiscono, da una parte, un passaggio epocale e, dall’altra, «acqua fresca», si possono fare alcune osservazioni sui punti nodali della questione giustizia. Molto si discute sulla separazione delle carriere (giudici e pubblici ministeri). La questione è antica. Nel nostro ordinamento la magistratura è un ordine unico (un «potere», tenendo presente la tripartizione definita da Montesquieu).
Pur tuttavia non mancano le ragioni per valutare la possibilità di separare – all’interno dell’ordine giudiziario – la magistratura requirente da quella giudicante. Nel 1998 la bozza predisposta da Marco Boato, nell’ambito degli studi della Commissione bicamerale per la riforma della seconda parte della Costituzione, prevedeva la tendenziale separazione delle carriere. La questione resta aperta e non è priva di incognite. Da un lato, si può pensare che la separazione comporti – come sostiene da sempre l’Associazione nazionale magistrati – il pericolo di una sottoposizione dei pubblici ministeri al potere politico. Questione, evidentemente, non da poco. Sull’altro versante, si pensa a un sistema – che si avvicina a quello vigente degli Usa – nel quale i pubblici ministeri hanno un ruolo marcatamente investigativo, avendo di fronte gli avvocati difensori. Difensori e accusatori nella medesima Corte, che ha nel giudice il momento di sintesi e di decisione. In entrambi i contesti ipotizzabili va rilevata l’esigenza che il pubblico ministero, ancorché «parte», debba lealmente concorrere a una giusta e completa «formazione della prova». In altri termini, che anche gli elementi che sembrino scagionare l’inquisito o imputato vanno messi sul tappeto, analoga lealtà dovrebbe presiedere all’azione degli avvocati difensori. Utopie? Forse, ma utopie necessarie.
Al fondo della questione vi è il tema dei tempi della giustizia. Che non sarà mai giusta se i processi dureranno tanto a lungo come succede attualmente. Paradossalmente, anche la sospensione della prescrizione dopo una condanna in primo grado può diventare un cappio al collo di una persona condannata ingiustamente. Analogamente, le modalità di risarcimento in un processo civile di chi abbia sofferto un danno o sia stato vittima di un dolo, servono soltanto a incoraggiare chi il dolo o il danno vuole commetterlo. I tempi biblici facilitano un’antica convinzione che è divenuta frase comune: «Pensi di aver subito un torto? Fammi causa!». Tanto il tempo passa.
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